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11 Ottobre 2025 - 12:01
Urbano Cairo
Che cos’è il Toro senza la sua anima? E cosa resta di un presidente se non il suo bilancio umano, prima ancora che sportivo? Domande che rimbalzano tra i palazzi di Torino e le montagne di Trento, dove Urbano Cairo, imprenditore alessandrino e torinese d’adozione, ha messo palla a terra e raccontato vent’anni di presidenza granata al Festival dello Sport, organizzato da La Gazzetta dello Sport. Davanti a una platea gremita, Cairo ha tracciato una linea di centrocampo netta tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, senza tirarsi indietro davanti ai temi più caldi: investimenti, ambizioni, contestazioni e perfino l’ipotesi di cessione.
“Il bilancio di questi 20 anni è positivo, mi sono divertito. Sono stati 20 anni di passione, con momenti belli e meno belli. Lo rifarei.” Parole piene, pronunciate a Trento, che suonano come un passaggio filtrante in profondità: limpide, dirette, quasi provocatorie nella loro semplicità. Cairo non si nasconde dietro un catenaccio prudente: “Ma non rimarrò al Torino a vita: di certo non può andare in mano a persone che non garantiscono i numeri e la storia del Toro.” Qui il presidente alza lo sguardo, come a leggere il movimento dei compagni: la storia pesa, i numeri contano, e il Toro non è una maglia qualunque. Da quel 2005 evocato con precisione – “Mi ricordo com’era il Toro nel 2005 quando l’ho preso a campionato iniziato” – il racconto si fa concreto, quasi contabile, ma sempre intriso di appartenenza. La società era appena rinata dopo il fallimento e lui, Cairo, ha scelto di cambiare marcia: “Nel Toro ci ho messo di tasca mia 72 milioni di euro. Quando l’ho preso ho aumentato il capitale sociale: da 200mila euro a 10 milioni perché serviva fare campagna acquisti.” Numeri secchi, come un colpo di testa all’angolino. Investimenti misurati, finalizzati a stabilizzare prima di rilanciare. E soprattutto, la consapevolezza di aver raccolto il Toro in un momento storicamente complicato.
Il presidente granata ripercorre un cammino fatto di alti e bassi, come una stagione in cui alterni vittorie sudate e pareggi di mestiere. Il Toro è risalito in Serie A e si è stabilizzato economicamente: una piattaforma solida su cui costruire, malgrado il brusio della piazza, quella stessa piazza che da sempre esige una corsa costante verso l’area avversaria. In fondo, il tifo granata è una curva che non conosce mezze misure: pretende cuore e orizzonti, memoria e futuro, sacrificio e coraggio. E Cairo lo sa bene: “Io ho sempre pensato di fare le cose al meglio per la squadra, anche se c’è qualcuno che mi contesta. Ci sono però tante persone che mi dicono di andare avanti.” È il doppio binario su cui viaggia ogni presidente: il consenso che scalda, la contestazione che punge. Ma il quadro che ne esce è quello di un club che ha ritrovato equilibrio, pur restando per natura inquieto.
Sulla possibilità di un passaggio di proprietà, Cairo evita i dribbling leziosi: meglio il tocco di prima. “È vero che ho dato disponibilità a vendere il Toro ma allo stato attuale di offerte non ce ne sono. Non ci sono trattative perché non ce ne sono offerte.” Tradotto: c’è apertura, ma il mercato tace. E allora la domanda diventa inevitabile: chi, e soprattutto come, potrebbe garantire “i numeri e la storia del Toro”? Perché qui non si tratta solo di firmare un assegno, ma di onorare un’eredità che brucia sulle spalle. L’orizzonte resta aperto, con una finestra spalancata e una porta ancora chiusa. Nel frattempo, si gioca: perché il calendario non aspetta e il club deve continuare a correre, facendo di pragmatismo e visione la sua coppia d’attacco.
A Torino, dove il Toro è più di un club e spesso più di una fede, le parole di Cairo non passano inosservate. L’imprenditore alessandrino, ormai figura centrale del panorama sportivo cittadino, sa bene che il dialogo con la città è un derby quotidiano. La spaccatura – percepita, altalenante, rumorosa – resta lì: tra chi riconosce al presidente di aver dato stabilità e chi invoca una nuova era, con ambizioni sportive più aggressive. Eppure, da Trento è arrivato un segnale doppio: continuità, sì, ma anche disponibilità a immaginare un passaggio di testimone se e solo se l’erede saprà reggere il peso della maglia. È come mettere il pallone sul dischetto e guardare il portiere negli occhi: la responsabilità viene prima del gesto tecnico.
C’è un filo unico che unisce la memoria del 2005 alla platea di oggi: l’idea che il Toro non possa essere trattato come un asset qualsiasi. Lo dicono i numeri – quei “72 milioni di euro” messi di tasca propria e l’aumento del capitale “da 200mila euro a 10 milioni” – ma lo ribadisce soprattutto il tono con cui Cairo ricorda di aver trovato il club a campionato iniziato. Tradisce la sensazione di un compito preso al volo, quasi da subentrato che entra al novantesimo e ribalta l’inerzia. Non sempre è stato spettacolo, non sempre si sono visti fuochi d’artificio. Però la squadra-società è rimasta in partita, evitando black-out e cercando una continuità che nel calcio, e nella vita di un club rinato dopo il fallimento, non è mai scontata. E adesso? La palla passa, come sempre, tra sentimenti e numeri. Il Torino resta un totem identitario, una maglia che racconta fatica e orgoglio. Le parole di Trento, scandite al Festival dello Sport, mettono ordine nello spogliatoio delle idee: visione economica e responsabilità storica, disponibilità a cedere ma zero trattative, consapevolezza del passato e una domanda sospesa sul futuro. Il pubblico chiama, la piazza pressa, il cronometro scorre. Il Toro, come sempre, si gioca tra cuore e calcolo. E per ora, il fischio finale non è ancora arrivato.
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