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Milan-Como si giocherà in Australia: il campionato piegato al dio denaro

La Serie A esporta una partita “di casa” dall’altra parte del mondo: a pagare sono i tifosi, traditi in nome del business globale

Milan-Como

Milan-Como si giocherà in Australia: il campionato piegato al dio denaro

La Serie A cede ancora una volta all’ossessione del profitto, piegando la tradizione al marketing internazionale. La sfida Milan-Como, valida per la ventiquattresima giornata del campionato 2025-2026, si giocherà non a San Siro, ma all’Optus Stadium di Perth, in Australia. Una decisione che sta facendo infuriare i tifosi rossoneri, costretti a rinunciare a una delle partite comprese nel loro abbonamento.

L’ufficialità è arrivata con l’autorizzazione “a denti stretti” della UEFA, che ha accettato l’idea solo per via delle “circostanze eccezionali” legate all’indisponibilità del Meazza, impegnato per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026. Ma al di là della motivazione tecnica, la sensazione è che il calcio italiano abbia colto l’occasione per mettere un piede nel mercato globale, in un’operazione dal valore economico stimato attorno ai 12 milioni di euro.

Un affare d’oro per i club, una beffa per i tifosi. Gli abbonati del Milan riceveranno un rimborso parziale, simbolico, per la partita persa, ma il danno è già fatto. Perché quella contro il Como non è solo una sfida di calendario: è un pezzo di identità collettiva, di appartenenza territoriale, sacrificato sull’altare del business. “È pura follia”, ha dichiarato il centrocampista Adrien Rabiot, uno dei pochi ad aver espresso apertamente disappunto per una scelta che costringerà i giocatori a 14 ore di volo e due settimane di adattamento climatico.

La Lega Serie A, per bocca dell’amministratore delegato Luigi De Siervo, ha liquidato le critiche con una frase che riassume perfettamente la deriva del calcio moderno: “I giocatori sono pagati per accettare queste decisioni”. Già, ma i tifosi? Chi difende la passione di chi riempie gli stadi ogni settimana, compra maglie, alimenta la fede sportiva che ancora dà senso a questo sport?

A Perth, dall’altra parte del mondo, il Milan giocherà “in casa” davanti a un pubblico di curiosi, appassionati d’importazione e sponsor entusiasti. Sarà uno spettacolo televisivo perfetto, certo. Ma l’immagine di San Siro chiuso, e migliaia di abbonati lasciati a guardare da lontano, racconta molto di più del calcio contemporaneo: racconta la resa definitiva alla logica del mercato, quella che trasforma ogni partita in un prodotto e ogni tifoso in un cliente da monetizzare.

Il paradosso è che tutto questo avviene in un Paese in cui gli stadi cadono a pezzi, i vivai arrancano e i conti dei club restano in rosso. Si tenta di “risollevare il sistema” spostando partite a 14mila chilometri di distanza, mentre il pubblico italiano, sempre più disaffezionato, guarda altrove. Eppure il problema non è la distanza geografica, ma quella culturale: quella tra il calcio di oggi e la sua gente.

La UEFA, che ha concesso l’autorizzazione “con riserva”, ha promesso che casi del genere non dovranno diventare la norma. Ma il precedente ormai è aperto. E se il modello funziona economicamente, altri seguiranno: partite di campionato in America, in Asia, magari in Medio Oriente, dove i capitali non mancano e l’audience cresce.

Per ora, a pagare sono i tifosi. Quelli veri, quelli che ogni domenica attraversano l’Italia per seguire la squadra, che aspettano la partita “in casa” come un rito. Il calcio che amavano non li ascolta più. E mentre le società inseguono il dio denaro, loro restano davanti a un televisore, a migliaia di chilometri da quella che un tempo era la loro curva.

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