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Storia
07 Ottobre 2025 - 14:48
7 ottobre 1943, l’alba del tradimento: duemila Carabinieri disarmati e deportati dai nazisti
Mentre Roma è occupata dalle truppe tedesche, la mattina del 7 ottobre 1943 segna una delle pagine meno note ma gravide di tensioni della storia della città sotto il nazifascismo: migliaia di Carabinieri, residenti e in servizio a Roma, vengono disarmati e fatti prigionieri, per poi essere deportati nei lager nazisti. Il gesto, di natura tattica e preventiva, si intreccia con la preparazione del rastrellamento del ghetto ebraico e con la volontà tedesca di esercitare un controllo assoluto su ogni possibile linea di resistenza interna.
Dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, le forze tedesche occupano Roma. I tedeschi, guidati sul piano dell’ordine interno dal capo SS e commissario Herbert Kappler, considerano i Carabinieri romani un potenziale ostacolo al loro dominio sull’Urbe: fedeli al Re, geograficamente dislocati in stazioni e caserme, con una forte connotazione patriottica, erano percepiti come potenziali alleati della popolazione o del movimento clandestino.
Nella notte tra il 6 e il 7 ottobre entra in vigore un ordine riservato (protocollo n. 269, del 6 ottobre 1943) con il quale il Ministro della Difesa nazionale Rodolfo Graziani, in accordo con le autorità tedesche, impone il disarmo immediato dei Carabinieri in servizio a Roma. A ciascuna caserma, stazione e reparto si ordina la consegna delle armi, la sostituzione del personale con unità della Polizia dell’Africa Italiana (PAI), e la custodia dei militari disarmati all’interno delle caserme stesse.
Il generale Casimiro Delfini, già in carica come comandante pro-tempore dell’Arma, e il generale Umberto Presti (comandante della PAI), sono incaricati di far applicare l’ordine. Dal lato tedesco, Kappler riceve l’incarico di coordinare l’operazione. Si stabilisce che entro le prime ore del mattino le caserme siano militarmente presidiate e che nessun carabiniere possa essere fuori servizio all’alba.
Al sorgere del giorno, paracadutisti tedeschi e reparti delle SS circondano le caserme dell’Arma in diversi punti della città: i Carabinieri, ignari e disarmati, si trovano circondati. Le porte vengono chiuse dall’esterno, e le armi, se trovate, sono immediatamente sequestrate.
Non tutti i Carabinieri romani vengono catturati: alcune testimonianze raccontano che molti, avvisati del pericolo attraverso reti di allerta informali o semplici avvertimenti, riescono a nascondersi o fuggire poco prima dell’irruzione. Ma un numero rilevante — stimato in circa 2.000–2.500 militari — non ha modo di sottrarsi.
I prigionieri vengono concentrati nelle caserme di addestramento, nei locali sottili delle caserme centrali, o negli spazi destinati agli allievi, dove vengono accalcati. I tedeschi impongono condizioni di sicurezza rigidissime: guardie armate, mitragliatrici posizionate sui tetti e la minaccia che chiunque tenti di fuggire sarà abbattuto sul posto.
Da lì, i Carabinieri vengono trasferiti su autocarri nella zona delle stazioni ferroviarie — Ostiense e Trastevere sono i punti principali di raccolta — caricati su vagoni bestiame. Il viaggio è crudele: numerosi prigionieri viaggiano in condizioni inumane, senza spazio per sedersi o sdraiarsi, senza aria e senza rifornimenti adeguati. Molti documenti dei sopravvissuti parlano del viaggio come di un “calvario” di fame, paura e assenza di dignità.
L’obiettivo è consegnarli a campi di internamento o lavoro forzato in Germania o in Austria, dove saranno trattati come internati militari italiani (IMI) — categoria giuridica priva delle protezioni offerte ai prigionieri di guerra secondo la Convenzione di Ginevra. Il fatto che fossero trattati come IMI significa che il loro stato giuridico era più gravoso e meno favorevole.
Molti, durante il tragitto o subito dopo l’arrivo, moriranno per stenti, malattie o violenze. Altri sopravviveranno, ma pagheranno un prezzo altissimo in salute e dignità. Le esperienze personali di alcuni reduci raccontano di prigionia, lavori estenuanti, condizioni igieniche indegne, punizioni arbitrarie.
L’episodio del 7 ottobre non è un atto isolato: secondo gli storici, rappresenta una mossa strategica preventiva, messa in campo per garantire il controllo tedesco sulla città e neutralizzare una forza interna che avrebbe potuto ostacolare il rastrellamento degli ebrei romani previsto per il 16 ottobre.
Il disarmo e la deportazione dei Carabinieri romani si inscrivono, dunque, in una logica repressiva: tagliare ogni possibile canale di resistenza militare interna e isolare gli ebrei dal supporto delle forze dell’ordine italiane.
Sul piano postbellico, gli effetti saranno duraturi. Alcuni generali e ufficiali coinvolti saranno processati, ma spesso assolti in seguito, con motivazioni di insufficienza di prove o applicazioni giuridiche limitate. Il generale Graziani, ad esempio, fu inizialmente condannato, ma alla fine ottenne riduzioni di pena o assoluzioni.
Questa vicenda, poco nota al grande pubblico, assume oggi una rilevanza importante nel processo della memoria, perché ricorda che la repressione nazista operò non solo sugli ebrei e sui partigiani, ma anche su quei corpi dello Stato che osavano mantenere una parvenza di autonomia morale e istituzionale.
Tra i militari deportati figura Abramo Primo Rossi, che negli anni successivi ha raccontato la propria esperienza di internamento e sopravvivenza. Rossi era giovane quando fu catturato e, come molti colleghi, vestì l’uniforme con il peso di un destino inatteso.
Nelle sue memorie, Rossi descrive le fasi della cattura, il viaggio in vagoni piombati, la concentrazione nei lager, lo sfruttamento nel lavoro forzato, le malattie, la fame, il freddo e la violenza quotidiana. Racconta di come lui e altri prigionieri abbiano tentato resistenza morale, mantenendo viva la dignità nell’umiliazione.
Le sue parole restituiscono la dimensione umana di un evento che altrimenti rischierebbe di rimanere una mera sequenza fattuale. Rossi ha anche ricordato episodi in cui i tedeschi chiedevano ai prigionieri di giurare fedeltà al Duce in cambio di libertà: molti rifiutarono. E ha descritto condizioni di sovraffollamento, di mancanza di assistenza medica, di assenza di cure per i malati.
Grazie a testimonianze come la sua, possiamo comprendere che quei treni verso i lager non erano soltanto trasporti forzati, ma il passaggio verso un sistema di tortura legale, dove l’essere umano veniva ridotto a oggetto di detenzione, sottomissione e morte.
Una delle versioni più toccanti che circola nella tradizione orale è che, durante il viaggio nei vagoni bestiame, alcuni Carabinieri avrebbero ben pensato di lanciare fuori dal finestrino un biglietto scritto in fretta: «Siamo stati fatti prigionieri, i Carabinieri della Capitale. Speriamo di ritornare presto. Saluti da tutti». Questo gesto, semplice e disperato, rappresenta una testimonianza di speranza e dignità, anche quando tutto sembrava perduto.
Non è certo che tutti i treni abbiano visto questo gesto, né è documentato in forma ufficiale in tutti i casi; ma nel racconto della memoria collettiva è diventato un simbolo potente. Rimane tuttavia credibile come atto di resistenza morale: lasciare traccia di sé, anche in condizioni estreme.
Nel secondo dopoguerra, l’episodio fu in parte oscurato dal racconto dominante della Resistenza che privilegiava le gesta partigiane e le vittime del rastrellamento ebraico, relegando la deportazione dei Carabinieri romani a nota marginale. Solo negli ultimi decenni è stato oggetto di ricerche più approfondite, grazie all’accesso a documenti militari italiani e tedeschi, archiviatorie e testimonianze orali.
L’opera di storici come Anna Maria Casavola ha contribuito a dare forma più compiuta a questo capitolo: la monografia 7 ottobre 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nei lager nazisti ricostruisce, minuto dopo minuto, le fasi del disarmo, della cattura, del trasporto e della detenzione.
In ambito istituzionale e commemorativo, ogni 7 ottobre molte associazioni, l’Arma stessa e gli enti della memoria promuovono cerimonie e momenti pubblici per ricordare quei militari “disarmati e traditi”, per far emergere il valore della loro fedeltà e per riflettere sul fatto che la repressione nazista abbia avuto molte frontiere, non solo contro gli ebrei, ma contro ogni tessuto civile che opponeva un’ombra di libertà.
La deportazione dei Carabinieri romani del 7 ottobre 1943 resta un capitolo “minore” nella memoria pubblica della guerra, ma è capace di illuminare una dinamica cruciale: la strategia nazista non si limitava a perseguitare razzialmente, ma anche a neutralizzare qualsiasi entità istituzionale italiana che potesse opporsi o dare supporto alle popolazioni perseguitate.
La testimonianza di chi c’era — come quella di Abramo Primo Rossi — smonta l’astrazione dei numeri: ogni deportato era una storia, una vita strappata, un dolore che è sopravvissuto in forme frammentarie. Il biglietto lanciato dal treno è il simbolo di quel filo umano che resiste anche quando tutto è perduto.
Nel presente, ricordare il 7 ottobre significa non solo tributare onore ai Carabinieri vittime del tradimento, ma riflettere su come lo Stato, le istituzioni e la società possano (e debbano) reagire quando la legalità è messa alla prova. In un’epoca in cui il ricordo viene continuamente rimesso in discussione, il disarmo, la cattura, il viaggio verso i lager devono restare nella coscienza pubblica. Non come una pagina minore, ma come un monito.
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