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Flotilla, il racconto di Amajou: “In Israele medicine gettate nella spazzatura e violenze continue in carcere”

L’attivista piemontese denuncia maltrattamenti, privazioni e abusi nel carcere di Ketziot dopo il sequestro della nave “Paola 1”

Flotilla, il racconto di Amajou

Flotilla, il racconto di Amajou: “In Israele medicine gettate nella spazzatura e violenze continue in carcere”

Ha gli occhi stanchi ma la voce ferma Abderrahmane Amajou, 39 anni, attivista torinese e presidente di ActionAid Italia, rientrato in Italia dopo giorni di detenzione in Israele. È l’unico piemontese ad aver seguito fino alla fine la spedizione della Global Sumud Flotilla, la missione umanitaria diretta verso Gaza e intercettata dalle forze israeliane nel Mediterraneo. La sua nave, la Paola 1, era salpata con l’obiettivo di portare aiuti simbolici e solidarietà alla popolazione palestinese. Oggi, di quel viaggio, Amajou racconta una verità dura: un’esperienza di abusi, umiliazioni e violenze sistematiche.

Atterrato ieri a Malpensa, accolto dai familiari e dagli amici, Amajou ha parlato per la prima volta pubblicamente di ciò che è accaduto dopo l’arresto, avvenuto durante il sequestro della flottiglia. Nelle sue parole emerge il ritratto di una detenzione che va oltre la privazione della libertà: una serie di pratiche che, secondo il suo racconto, hanno avuto l’obiettivo di instillare terrore nei detenuti, mantenendoli in uno stato di costante sottomissione psicologica.

L’attivista descrive il clima nel carcere di Ketziot, nel deserto del Negev, dove sono stati portati i membri della Flotilla: «Ci privavano del sonno, facevano irruzione nelle celle armati, a intervalli di due ore, puntandoci addosso le torce e i fucili. Ci obbligavano a scendere dal letto, inginocchiarci, alzare le mani. Poi se ne andavano, e dopo poco tornavano». Nessuna possibilità di riposo, nessuna certezza: un ciclo continuo di paura e disorientamento.

Le violenze, racconta, non si sarebbero limitate alle notti. Fin dallo sbarco nel porto israeliano di Ashdod, Amajou sostiene di aver visto soldati trascinare per i capelli un ragazzo italiano. «Solo quando hanno saputo che c’erano telecamere pronte a riprendere – ha raccontato – hanno cambiato atteggiamento, distribuendo bottigliette d’acqua. Ma pochi minuti dopo ce le hanno tolte».

Tra gli episodi più gravi, la confisca e distruzione dei medicinali portati dai volontari: «Hanno sequestrato tutto – dice Amajou – e hanno buttato le medicine nella spazzatura davanti ai nostri occhi. Ci hanno detto che ci avrebbe pensato la farmacia del carcere, ma nessuno ha ricevuto cure».

Nel penitenziario, la situazione sanitaria sarebbe rapidamente degenerata. Secondo Amajou, due detenuti diabetici rischiavano di collassare per mancanza di farmaci. L’unica risposta è arrivata dopo la visita di un giudice e di alcuni diplomatici italiani, quando le autorità israeliane avrebbero finalmente consentito una parziale assistenza. Ma nel frattempo, la protesta si era già estesa a tutti: «Abbiamo iniziato uno sciopero della fame collettivo», racconta.

Oltre alla violenza fisica e psicologica, Amajou parla di sovraffollamento estremo: celle con tredici persone stipate, letti insufficienti, detenuti costretti a dormire per terra. Spostamenti continui, per impedire qualsiasi punto di riferimento o organizzazione tra i prigionieri. Una condizione che, secondo l’attivista, rientra in un modello consolidato di intimidazione e disumanizzazione.

Il racconto di Amajou si aggiunge alle testimonianze di altri membri della Flotilla, rilasciati nei giorni scorsi. Tutti descrivono lo stesso schema: isolamento, interrogatori prolungati, privazioni e minacce. Le autorità israeliane, dal canto loro, non hanno ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali sul trattamento dei detenuti, limitandosi a confermare che l’operazione militare è stata condotta “nel rispetto delle procedure di sicurezza nazionale”.

Dietro la sua voce calma, si percepisce la fatica di chi ha visto troppo. «Sapevano che non potevano ucciderci, ma volevano spaventarci, farci capire che loro avevano il controllo», ha spiegato Amajou. Un controllo esercitato non solo con le armi, ma con la logica dell’arbitrio.

La vicenda riaccende il dibattito internazionale sulla repressione delle missioni umanitarie dirette a Gaza, da anni al centro di un muro navale imposto da Israele. Ogni tentativo di portare aiuti o testimonianze nella Striscia viene trattato come una minaccia. La Global Sumud Flotilla, che riunisce attivisti di diverse nazionalità, intendeva denunciare proprio questo: l’impossibilità di garantire ai civili palestinesi accesso a risorse essenziali come acqua, cibo e cure mediche.

Amajou, nato in Marocco e cittadino italiano dal 2011, è un volto noto del volontariato piemontese. Già consigliere comunale a Bra, oggi guida una delle principali organizzazioni non governative italiane impegnate in progetti di solidarietà internazionale. Il suo racconto, oggi, assume il peso di una denuncia pubblica.

Mentre a Bra lo attendono incontri e testimonianze pubbliche, l’attivista annuncia l’intenzione di portare la vicenda davanti alle istituzioni italiane ed europee. Perché, dice, ciò che ha visto “non può essere archiviato come un episodio isolato”.

Nel frattempo, la sua voce si unisce a quella degli altri sopravvissuti della Flotilla: un coro che chiede verità e giustizia, e che ricorda quanto la difesa dei diritti umani possa ancora costare caro.

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