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29 Settembre 2025 - 01:09
Richard Gere alza la voce per Gaza: “Se non sosteniamo chi rischia la vita, ci meritiamo questo mondo”
C’è un uomo che, pur avendo vissuto la gloria delle luci di Hollywood, non ha mai accettato l’idea che il proprio ruolo fosse soltanto quello di recitare. Richard Gere lo si è visto nei film più iconici, in quelle scene che hanno fatto la storia del cinema americano, ma è lontano anni luce dall’immagine patinata che gli è stata cucita addosso. A Milano, nella cornice scintillante di Brera, tra applausi e abiti di alta moda per i cinquant’anni della maison Armani, ha deciso di parlare non di sé, né di cinema, ma di Gaza. È stato un intervento breve, quasi rubato al ritmo convulso delle passerelle, ma sufficiente per lasciare un segno: “Tutti devono fare qualcosa e non puoi delegare a nessun altro. Ciascuno di noi, ad un certo punto, deve prendere posizione”. Lo ha detto con voce ferma, davanti a chi era lì per celebrare lo stile italiano e si è trovato invece a ricevere un appello universale.
Gere non ha mai smesso di ripetere che la dignità umana è indivisibile, e ancora una volta ha scelto di ribadirlo, invitando a sostenere la Global Sumud Flotilla, la missione civile più grande mai tentata per portare aiuti a Gaza e rompere simbolicamente il blocco navale imposto da Israele dal 2009. “Dobbiamo informarci, dobbiamo dire no quando è importante dire no, dobbiamo supportare le persone che fanno cose altruiste, generose, intelligenti. Altrimenti vuol dire che ci meritiamo il mondo in cui viviamo”. Non parole di circostanza, ma un richiamo che è condanna per chi sceglie il silenzio.
Non è la prima volta che l’attore si schiera. Lo aveva fatto già alla vigilia del Festival di Cannes 2025, firmando insieme a Susan Sarandon, Javier Bardem e altre star una lettera aperta che denunciava il genocidio in corso nella Striscia. Lo aveva fatto un anno prima a Milano, durante l’anteprima del documentario La saggezza della felicità, criticando la leadership politica internazionale e prendendo di mira il presidente americano Donald Trump. Nel 2017 aveva visitato Hebron, toccando con mano la realtà dei territori occupati. E nell’agosto 2019 era salito a bordo della nave Open Arms, bloccata a trenta miglia da Lampedusa con 121 migranti: portò viveri e soccorsi, disse che non erano migranti ma rifugiati, e attirò l’ira dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, che liquidò la sua scelta con sarcasmo: “Li porti a Hollywood”.
Oggi, mentre le 42 barche della Flotilla lasciano Creta e si dirigono verso Gaza, la tensione è palpabile. Sono già in acque internazionali, sorvolate dai droni israeliani, che questa volta si sono tenuti alti, senza attacchi. Ma tutti sanno che il pericolo cresce a ogni miglio percorso. Maria Elena Delia, portavoce italiana del Global Movement to Gaza, lo ha detto chiaramente: la sensazione è che l’intervento israeliano sia imminente, forse ancora prima che le imbarcazioni possano tentare di avvicinarsi alla Striscia.
A Roma, nel frattempo, si susseguono incontri febbrili. Gli attivisti hanno parlato con governo e opposizioni, cercando di scongiurare il peggio. Il ministro della Difesa Guido Crosetto li ha ricevuti nella caserma dei Carabinieri vicino a San Pietro. È stato netto: comprende l’obiettivo umanitario della missione, ma ha avvertito che un tentativo di forzare il blocco navale esporrebbe i naviganti a pericoli altissimi e incontrollabili. Ha ribadito che la fregata Alpino, che segue la Flotilla, non interverrà militarmente: potrà offrire solo soccorso, se necessario. La linea è la stessa espressa dal ministro degli Esteri Antonio Tajani: nessun coinvolgimento diretto in acque considerate da Israele zona di guerra.
C’è però un’ultima mediazione che ancora tiene accesa la speranza: l’idea di sbarcare i beni umanitari a Cipro, sotto la garanzia del Patriarcato latino di Gerusalemme. Una proposta che trova il sostegno del Vaticano, con Pierbattista Pizzaballa pronto a farsi garante, e che viene seguita da vicino anche dal Quirinale. La segretaria Pd Elly Schlein ha espresso l’auspicio che il canale con la Chiesa non si interrompa, e lo stesso Tajani ha riconosciuto l’impegno dei leader di centrosinistra che hanno ascoltato l’appello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma gli attivisti non vogliono che Israele possa avere il controllo sugli aiuti: rifiutano l’ipotesi che Tel Aviv filtri ciò che arriva a Gaza.
Il clima è incandescente. “Il prossimo attacco sarà micidiale, ci saranno feriti, forse morti”, ha detto Stefano Bertoldi, comandante della Zefiro, una delle barche già prese di mira dai droni.
La missione raccoglie il sostegno compatto di Pd, M5S, Avs e +Europa.
“Hanno tutto il diritto di arrivare a Gaza, non sono acque israeliane”, ha dichiarato Giuseppe Conte, chiedendo al governo italiano di attivarsi in sede europea per proteggere gli equipaggi.
Intanto la diplomazia lavora. L’ambasciatore italiano a Tel Aviv, Luca Ferrari, è stato ricevuto dal presidente israeliano Isaac Herzog. Ha trasmesso la preoccupazione del governo di Roma, chiedendo di considerare la natura umanitaria della missione. Herzog ha garantito che all’esercito israeliano è stato dato l’ordine di non usare la forza letale. Nessun colpo sparato, ma resta la volontà di impedire fisicamente alle navi di avvicinarsi. Probabilmente con un abbordaggio, come quello già visto a giugno contro la nave Madleen, a bordo della quale c’erano Greta Thunberg e l’eurodeputata Rima Hassan. Gli attivisti furono arrestati, la nave sequestrata.
Il pensiero corre inevitabilmente al 2010, alla tragedia della Mavi Marmara. Nove attivisti turchi uccisi, un decimo morto in seguito per le ferite, tutti colpiti da proiettili di piccolo calibro. Allora Israele propose l’accesso al porto di Ashdod e il trasferimento degli aiuti a Gaza: la stessa offerta che ha ribadito in queste ore. Ma la memoria di quel massacro pesa ancora come un monito che nessuno può ignorare.
La Flotilla di oggi, però, è diversa. Sono 43 le navi in viaggio, con 45 tonnellate di aiuti a bordo. Dopo la sosta tecnica a Creta, altre otto barche si sono unite da Catania. Alcune, come la Zefiro e la Family, hanno subito danni negli attacchi precedenti e sono rimaste indietro. Ma l’obiettivo resta lo stesso: arrivare di fronte a Gaza, anche solo per dimostrare che il mare non può essere un muro.
Dentro questa flotta ci sono storie che raccontano la pluralità del mondo: italiani come Tony La Piccirella, alla sua seconda missione dopo l’arresto dell’anno scorso, e la stessa Delia, storica amica di Vittorio Arrigoni, l’attivista ucciso nel 2011 e diventato simbolo del motto “Restiamo umani”. Ci sono parlamentari: Benedetta Scuderi di Avs, Marco Croatti del M5S, Arturo Scotto e Annalisa Corrado del Pd. Nella loro barca, la Karma, viaggia anche Yassine Lafram, presidente dell’Ucoii, in un intreccio di politica, fede e impegno civile.
Ci sono leader internazionali come Greta Thunberg, che aveva già tentato l’approdo nei mesi scorsi e che, pur avendo lasciato il direttivo della missione per divergenze sulla comunicazione, ha deciso di rimanere a bordo come semplice attivista. C’è Ada Colau, ex sindaca di Barcellona, che parla di un corridoio umanitario che i governi avrebbero dovuto aprire da tempo. C’è Nkosi Zwelivelile Mandela, detto Mandla, nipote di Nelson, che ha scelto di imbarcarsi ricordando che “l’apartheid che vive Gaza è la stessa che ha vissuto il Sudafrica”. C’è la scrittrice irlandese Naoise Dolan, che naviga per testimoniare e per ricordare i 221 giornalisti uccisi a Gaza.
E poi ci sono i volti meno noti ma altrettanto determinati: l’economista brasiliano Thiago Avila, la storica greca Kloniki Alexopoulou, l’attivista turco-tedesca Yasine Acar, il palestinese di Barcellona Saif Abukeshek. In totale, partecipano persone da 44 Paesi diversi, unite dalla convinzione che rompere l’assedio non sia solo un gesto politico, ma un atto di giustizia.
C’è chi definisce la Flotilla un’armata Brancaleone, un insieme di idealisti senza strategia. E c’è chi la vede come il volto che la politica internazionale non ha avuto il coraggio di mostrare. Forse sono entrambe le cose: un miscuglio di ingenuità e di coraggio, di fragilità e determinazione. Di certo, è un’azione che mette in discussione l’inerzia del mondo.
In queste ore, mentre le imbarcazioni avanzano lentamente tra Creta e Gaza, il mare è il teatro di una sfida che non è soltanto geopolitica ma umana. Gli attivisti guardano l’orizzonte con la consapevolezza che potrebbero essere abbordati, arrestati, feriti. Eppure continuano. Continuano perché credono che non ci sia alternativa al tentativo. Continuano perché, come diceva Arrigoni, bisogna restare umani.
E mentre il rischio si fa sempre più concreto, riecheggiano le parole pronunciate da Richard Gere a Milano, parole che diventano quasi un testamento per chi naviga in quelle acque: “Dobbiamo supportare chi fa cose altruiste, generose, intelligenti. Altrimenti ci meritiamo il mondo in cui viviamo”.
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