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Il genocidio di Gaza e il paradosso che non avevano previsto

Mentre le bombe cancellano vite e città, nelle piazze del mondo nasce una coscienza collettiva che ribalta il silenzio complice dei governi: i palestinesi scoprono di non essere soli

Il genocidio di Gaza e il paradosso che non avevano previsto

Manifestazione a Roma

Il genocidio di Gaza – perché sì, non lo si può che chiamare così, con tutta la rabbia e la disperazione che il termine porta con sé – sta mostrando al mondo una verità che nessuno avrebbe immaginato: in mezzo al sangue, alle macerie, ai corpi straziati, sta nascendo qualcosa che non era mai accaduto prima. Un paradosso crudele, quasi insopportabile: il tentativo di annientare un popolo sta risvegliando un’umanità che credevamo morta.

Ogni giorno da Gaza arrivano immagini che non avremmo voluto vedere: bambini senza nome allineati in sacchi di plastica, madri che scavano a mani nude tra le rovine di ciò che era una casa, medici che operano senza anestesia. Ogni giorno un pezzo di coscienza universale dovrebbe morire. Eppure, in questo buio, accade l’imprevisto. Accade che milioni di persone, dall’America Latina all’Europa, scendano in piazza per dire che no, non tutto può essere taciuto.

Ecco la contraddizione feroce: non sono le bombe e i droni a cambiare la percezione dei palestinesi verso Israele o gli Stati Uniti – quella è scolpita da decenni di occupazione, muri e veti. È invece il mondo che cambia davanti agli occhi dei palestinesi. Non più "tutti nemici" ma "tutti amici, tranne un paio".

Cortei che riempiono Londra e Parigi, Roma, Milano e Torino. Studenti che occupano le università rischiando carriera e futuro, rabbini che sfilano accanto a palestinesi dicendo “not in our name”. Questo non lo aveva previsto nessuno. Non lo aveva previsto Netanyahu, non lo aveva previsto l'America, non lo avevano previsto i generali che credevano di vincere la guerra dell’immagine mentre sganciavano tonnellate di esplosivo sui palazzi e sugli ospedali.

Berlino

Berlino

E invece, a Gaza, sotto le bombe, i palestinesi oggi scoprono che il mondo non è solo quello dei silenzi complici e dei governi inginocchiati. Scoprono che nelle strade di Berlino, di Roma, di Buenos Aires, di New York, migliaia gridano il loro nome, la loro sofferenza. Non cambia il nemico diretto, certo: Israele resta Israele, gli Stati Uniti restano gli Stati Uniti, con le armi, i veti e le ipocrisie. Ma cambia il resto: cambia l’idea di non essere soli, cambia la consapevolezza che milioni di persone non vogliono più assistere passivamente.

Questo genocidio, paradossalmente, non ha solo distrutto: ha creato. Ha creato una nuova lingua di solidarietà, ha ricostruito legami fra pezzi di mondo che non si parlavano più, ha dato voce a una generazione che non si accontenta più delle narrazioni ufficiali.

E qui sta la beffa suprema: volevano annientare un popolo, e hanno finito per accendere una coscienza globale. Pensavano di spegnere la speranza, e invece l’hanno moltiplicata. Credevano di silenziare la causa palestinese, e l’hanno trasformata in simbolo universale.

Non c’è nulla di buono in un genocidio, se non il paradosso che la sua stessa atrocità costringe il mondo a guardarsi allo specchio. È questo lo specchio che oggi milioni di persone stanno mettendo davanti ai propri governi. Uno specchio che riflette complicità, ipocrisie, interessi sporchi. Ma riflette anche l’altra faccia dell’umanità, quella che nonostante tutto resiste: studenti, lavoratori, attivisti, cittadini comuni che non hanno più paura di dire “basta”.

Gaza oggi è insieme inferno e rinascita. È il simbolo più atroce della disumanità, ma anche il luogo in cui si misura la possibilità di non perdere definitivamente la nostra umanità.

E se un giorno qualcuno scriverà la storia di questi mesi, dovrà dire anche questo: che dal massacro è nato un tutt'uno globale, che dalle macerie è spuntata una coscienza, che dal genocidio di Gaza non è uscito soltanto sangue, ma anche una verità che nessuno potrà più cancellare.

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