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Torino assediata. Bambini in corteo contro il genocidio, manganelli e idranti per fermarli

In migliaia in marcia verso l’aeroporto di Caselle, bloccati dalle camionette. Scontri, feriti, striscioni contro Leonardo e il governo Meloni. Il traffico in tilt, i trolley trascinati a piedi. “Se non fermate voi il massacro, lo fermeremo noi dalle piazze”

Torino assediata. Bambini in corteo contro il genocidio, manganelli e idranti per fermarli

Torino in marcia. E' successo sabato. Persone in strada per dire no al genocidio a Gaza e per sostenere la Global Sumud Flotilla. Non è la prima volta: in una sola settimana questa era già la terza volta.

Alle due del pomeriggio piazza Crispi si riempie. In migliaia si presentano con scarpe da ginnastica, borracce, bandiere e striscioni. C’è chi arriva in bici, chi a piedi, chi in monopattino, chi con bambini al seguito. In prima fila proprio loro, i bambini, che sollevano bandiere palestinesi e aprono la marcia. Dietro di loro lo striscione: “Fermiamo il Terzo Reich israeliano che ammazza i bambini e i giornalisti”. È una scritta che non lascia spazio a mediazioni, una ferita esposta a cielo aperto.

L’obiettivo è dichiarato: bloccare l’aeroporto di Caselle, accusato dai manifestanti di non essere solo un’infrastruttura civile. “Questo scalo è usato per scopi militari e strategici” si ripete al megafono. Accanto alle piste ci sono due stabilimenti Leonardo, dove si producono sistemi di guerra. “Da qui partono armi e aerei che bombardano, da qui passa la complicità italiana nello sterminio”.

La marcia si allunga verso Borgaro e Caselle, ma il clima si fa subito pesante. I sindaci Claudio Gambino e Giuseppe Marsaglia, firmano ordinanze straordinarie: negozi chiusi, feste patronali annullate. Pattuglie di carabinieri e polizia presidiano le strade, i vigili regolano incroci ormai militarizzati. L’aria è di stato d’assedio.

Alle porte di Torino le camionette sbarrano la strada. Gli agenti del reparto mobile in assetto antisommossa alzano scudi e manganelli. Dal corteo parte il grido: “Aprite, siamo pronti alla violenza di ogni tipo”. In pochi minuti la tensione esplode. Volano pietre, bottiglie, bombe carta. La polizia risponde con idranti e fumogeni. Lo scontro dura dieci minuti, poi il corteo arretra. Dieci manifestanti restano feriti, due agenti riportano contusioni.

Nonostante lo stop, una cinquantina di persone non si arrende. Deviano attraverso i campi, affondano nel fango, aggirano i posti di blocco. Sporchi e stanchi, arrivano quasi fino alle reti che delimitano l’aeroporto. Sventolano le bandiere palestinesi e gridano: “Leonardo complice del genocidio”. Non entrano nello scalo, ma arrivano a bloccare la provinciale.

Sono le cinque e mezza del pomeriggio quando occupano la Torino-Caselle. Prima una sola carreggiata, poi anche l’altra. Scavalcano i new jersey e si siedono sull’asfalto, srotolando lo striscione: “Boicottiamo l’industria della guerra”.

Il traffico si paralizza in entrambe le direzioni: dieci chilometri di code verso l’aeroporto, poco meno verso Torino. Le auto restano ferme, i clacson suonano, la rabbia cresce.

Molti passeggeri scendono dalle macchine e si avviano a piedi con i trolley. Alcuni sono stranieri, spaesati, costretti a trascinarsi lungo la strada. C’è chi si indigna, chi impreca, chi mostra il pugno chiuso in segno di solidarietà. Un uomo corre, ha l’aereo per la Romania e urla: “Sono incazzato, posso dirlo? Arriverò in ritardo!”. Una donna con la valigia sbotta: “Anch’io sono contro la guerra, ma così rischiamo di perdere il volo”. C’è chi dal finestrino urla: “Andate a lavorare”. Un pensionato chiede agli agenti come fare per raggiungere un disabile che lo aspetta agli arrivi. La polizia lo accompagna contromano per permettergli di passare.

Dopo mezz’ora di trattative i manifestanti liberano una corsia, ma la tensione resta alta. Alle sei e mezza decidono di sciogliere il blocco e tornano verso la città, sotto lo sguardo della Digos.

Nel frattempo, il corteo principale ripiega in centro. A piazza Castello, davanti al Salone dell’Auto, i fumogeni rossi avvolgono le auto di lusso in esposizione. I turisti restano sorpresi, qualcuno fotografa, altri scappano. Dal megafono i manifestanti parlano chiaro: “Ci scusiamo se roviniamo il vostro pomeriggio tra le auto, ma c’è un genocidio e non possiamo restare zitti”. È un gesto simbolico: disturbare la vetrina dell’opulenza per ricordare che a Gaza non ci sono vetrine ma macerie.

Sui furgoni campeggia il volto di Matteo Salvini con una mano di sangue. Gli slogan contro il governo Meloni si susseguono. Un bambino legge l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa verso altri popoli”. Poi aggiunge: “Meloni è una bugiarda e vuole solo la guerra”. La piazza applaude.

Dalla politica arrivano reazioni immediate. Il centrodestra condanna in blocco. Paolo Zangrillo parla di “guerra allo Stato”. Augusta Montaruli accusa i manifestanti di farsi scudo dei bambini. Giorgio Maria Bergesio della Lega definisce la protesta “guerriglia urbana”. Osvaldo Napoli di Azione critica persino il ministro dell’Interno per non aver impedito il corteo. Silvia Fregolent di Italia Viva dice che “attaccare le forze dell’ordine e bloccare un aeroporto non difende una causa, ma serve solo a compiere violenze”.

Dal centrosinistra la voce è diversa. Marco Grimaldi di AVS rifiuta “le solite provocazioni” e ricorda che da mesi si chiede di fermare il genocidio e imporre sanzioni a Israele.

La mobilitazione però non si chiude qui. Già si annunciano nuove azioni: proteste nelle scuole, contestazioni a Jeff Bezos e Ursula von der Leyen durante l’Italian Tech Week, uno sciopero nazionale sabato a Roma.

“Se il governo non vuole fermare il massacro, lo fermeremo noi dalle piazze” gridano gli organizzatori.

La giornata si chiude con volti segnati dalla stanchezza e dallo scontro, ma con la convinzione che la lotta continuerà. Torino oggi mostra che la coscienza civile non è morta: ci sono ancora persone disposte a rischiare denunce e manganelli pur di non restare indifferenti. E i bambini che aprono la marcia sono lì a ricordarlo: la loro voce è fragile, ma è più forte di qualsiasi fumogeno.

Grazie a chi non resta in silenzio

C’è chi ieri ha scelto di restare a casa, magari davanti a una tv che trasmetteva le immagini di Gaza come se fossero una tragedia lontana, inevitabile. E c’è chi invece ha indossato le scarpe da ginnastica, ha preso una bandiera e ha deciso che la dignità non si delega.

A quelle donne e a quegli uomini, a quei ragazzi e a quei bambini che hanno marciato per chilometri fino a farsi fermare da camionette e idranti, noi vogliamo dire grazie. Perché non è comodo sfidare manganelli e fumogeni. Non è facile mettersi in cammino sapendo che finirai denunciato, che verrai insultato come “pacifista violento”, che sarai accusato di guerriglia solo perché non accetti che la normalità si costruisca sopra i cadaveri dei bambini palestinesi.

Grazie a chi ha aperto la strada con passi piccoli e bandiere grandi, a quei bambini che hanno letto l’articolo 11 della Costituzione con più coraggio di tutti i parlamentari messi insieme. Grazie a chi, nel fango dei campi intorno a Caselle, ha continuato ad avanzare mentre gli altri arretravano. Grazie a chi ha occupato la provinciale, ha fatto fermare le auto e ha costretto i passeggeri a guardare negli occhi una realtà che non si può più nascondere.

Grazie a chi non si è spaventato di fronte alle accuse del potere, a chi ha accettato di sentirsi dire “vergogna” da chi dovrebbe vergognarsi di sostenere un governo che chiude gli occhi sul massacro. Grazie a chi ha portato i propri corpi nelle strade per dire che Caselle non è un luogo neutro, ma una base militare che produce morte.

Questa gratitudine non è retorica. È un modo per ricordare che senza la disobbedienza civile, senza i corpi che si mettono di traverso, la storia non cambia. Non cambierà certo con i comunicati indignati dei ministri, non cambierà con i sorrisi di chi inaugura saloni dell’auto mentre a Gaza muoiono i bambini. Cambierà con chi rompe la routine, con chi si prende addosso gli insulti e la repressione pur di dire che la vita vale più delle vetrine.

Per questo oggi vogliamo dire grazie a chi ha trasformato Torino in una città che non obbedisce. Grazie a chi ha dimostrato che la coscienza non è morta, che non tutti si rassegnano, che il genocidio non passerà nel silenzio.

La voce che si è alzata ieri non riguarda solo Gaza. Riguarda tutti noi. Riguarda il nostro diritto a non essere complici, a non accettare che il profitto conti più della vita. Chi è sceso in piazza ci ha ricordato che la dignità non si compra e non si vende. Si difende. Sempre.

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