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28 Settembre 2025 - 19:28
Hamas. Un nome che negli ultimi mesi ha invaso le cronache di tutto il mondo, evocato nei titoli dei giornali, nei dibattiti politici, nelle dichiarazioni dei governi. Spesso ridotto a una sola parola: “terroristi”. Ma questa definizione, per quanto efficace sul piano mediatico, non basta a spiegare la complessità di un movimento che è al tempo stesso partito politico, organizzazione militare, rete sociale radicata, simbolo per milioni di palestinesi, attore riconosciuto da potenze globali come Russia e Cina.
Hamas non è un corpo estraneo, non è spuntato dal nulla: è il prodotto di decenni di conflitto, di occupazione, di promesse mancate, di rabbia e disperazione che hanno trovato in esso una forma organizzata. Comprenderlo non significa giustificarne la violenza, ma provare a raccontare le ragioni per cui, ancora oggi, una parte consistente della popolazione palestinese continua a considerarlo un riferimento politico.
Il movimento nasce nel dicembre del 1987, in piena Prima Intifada, la rivolta popolare palestinese contro l’occupazione israeliana. A fondarlo è lo sceicco Ahmed Yassin, religioso cieco e costretto su una sedia a rotelle, che seppe trasformare la ribellione di strada in un’organizzazione strutturata. Intorno a lui, figure come Abdel Aziz al-Rantisi e Mahmud al-Zahar.
Hamas nasce come ramo palestinese dei Fratelli Musulmani, e fin da subito fonde due elementi: l’Islam come ideologia e la resistenza armata come strumento politico. L’acronimo stesso, Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, Movimento di Resistenza Islamica, porta dentro questa duplicità. Non un partito qualsiasi, non una semplice milizia, ma entrambe le cose.
Fin dai primi anni, Hamas costruisce consenso su due fronti. Da un lato il sociale: scuole, ospedali, programmi di beneficenza, sostegno ai più poveri. In un contesto di occupazione e di miseria, questo lo rende credibile agli occhi della popolazione. Dall’altro il militare: le Brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio armato che diventerà responsabile di attentati suicidi e lanci di razzi contro Israele, entrando così nelle liste nere dell’Occidente. È questa duplice natura, di movimento politico e organizzazione armata, a fare di Hamas un soggetto difficilmente classificabile. Per i governi occidentali è terrorismo. Per una parte dei palestinesi è resistenza. Per altri ancora è l’unica autorità concreta che, tra blocchi e bombardamenti, garantisce almeno un pacco alimentare, uno stipendio, un letto d’ospedale.
La svolta politica avviene nel 2006. Hamas partecipa alle elezioni legislative palestinesi e le vince, battendo il partito storico Fatah. È un terremoto: per milioni di palestinesi stanchi di negoziati senza sbocchi e di un’Autorità Nazionale Palestinese percepita come corrotta, Hamas diventa l’unica alternativa. L’anno dopo, dopo sanguinosi scontri con le milizie rivali, Hamas prende il controllo della Striscia di Gaza. Dal 2007 governa quel territorio stretto tra Israele ed Egitto, 365 chilometri quadrati con oltre due milioni di abitanti, isolato da un blocco che condiziona ogni aspetto della vita quotidiana. Gaza da allora è Hamas, e Hamas è Gaza. Nonostante i bombardamenti, le crisi umanitarie, le accuse di autoritarismo, il movimento non ha mai perso del tutto il consenso popolare, proprio perché ha saputo legarsi alla sopravvivenza concreta della popolazione.
Nel frattempo la leadership è cambiata, spesso a causa degli omicidi mirati condotti da Israele. Lo stesso Yassin viene ucciso nel 2004 da un missile lanciato mentre usciva da una moschea. Poco dopo, anche al-Rantisi muore in un raid. Negli anni successivi emergono nuove figure: Khaled Meshaal, capo politico in esilio; Ismail Haniyeh, attuale leader politico che vive tra Qatar e Turchia; Yahya Sinwar, il capo di Gaza, ex prigioniero liberato in uno scambio con Israele, considerato tra i più duri. Attorno a loro ruota una classe dirigente che alterna la clandestinità alla diplomazia internazionale, la gestione quotidiana del potere alla pianificazione militare.
Il consenso di cui Hamas gode ancora oggi si spiega con le condizioni drammatiche della Striscia. Sotto blocco da quasi vent’anni, con disoccupazione altissima, blackout continui, ospedali in difficoltà, Gaza sopravvive grazie anche alla rete di assistenza che Hamas aveva messo in piedi. Non è solo ideologia religiosa: per molte famiglie, Hamas è (anzi era) l’unico che paga un salario, che distribuisce generi alimentari, che assicura che i bambini vadano a scuola. È questo legame tra politica e vita quotidiana a spiegare perché il movimento resista a bombardamenti e invasioni. Chi vive sotto assedio tende a riconoscere legittimità a chi almeno prova a garantire protezione.
Sul piano ideologico, lo statuto del 1988 era radicale: negava l’esistenza di Israele, proclamava la Palestina “terra islamica inviolabile”. Negli anni, però, alcune aperture hanno fatto pensare a un’evoluzione. Documenti successivi hanno lasciato intendere che Hamas potrebbe accettare la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, pur senza riconoscere formalmente Israele. È un’ambiguità calcolata: da un lato mantiene il sostegno della base più radicale, dall’altro tiene aperto uno spiraglio di legittimazione internazionale.
E proprio sul piano internazionale, Hamas non è isolato quanto si pensa. Oltre al sostegno dell’Iran, che fornisce armi e denaro, e al Qatar, che ospita i suoi leader e ne finanzia parte delle attività, ci sono rapporti ufficiali anche con Russia e Cina, che lo considerano un interlocutore politico inevitabile nei negoziati regionali. L’Egitto, pur ostile, tratta con Hamas perché è indispensabile in ogni mediazione sul valico di Rafah o in un cessate il fuoco. Questo quadro dimostra come Hamas sia, per molti attori, non solo una milizia, ma un soggetto politico radicato, con cui occorre fare i conti.
La guerra in corso ha riportato Hamas al centro della scena globale. Il 7 ottobre 2023 le sue milizie sfondano i confini e compiono un’incursione senza precedenti in Israele, uccidendo centinaia di civili e prendendo oltre duecento ostaggi. L’attacco scuote Israele come mai prima, scatenando la risposta più dura degli ultimi decenni.
Da allora, Gaza è sottoposta a bombardamenti incessanti che hanno causato decine di migliaia di morti, tra cui moltissimi bambini e donne. Interi quartieri sono stati rasi al suolo, ospedali colpiti, infrastrutture distrutte. Le immagini dei corpi estratti dalle macerie hanno fatto il giro del mondo. È in questo scenario che Hamas continua a presentarsi come difensore della popolazione, alimentando la convinzione, tra molti palestinesi, che senza di esso non resterebbe alcuna voce in grado di opporsi.
Ridurre Hamas a un’etichetta rassicurante come “terroristi” non basta a spiegare perché resista da quasi quarant’anni. Significa non vedere le ragioni politiche di un popolo che, pur pagando un prezzo altissimo in termini di sangue e distruzioni, continua a sostenere chi promette almeno dignità e protezione. Hamas è un partito che governa, un’organizzazione sociale radicata, un braccio armato capace di colpire Israele, un attore che tratta con Russia, Cina, Iran, Qatar. È il prodotto di una storia di occupazione e assedio, di negoziati falliti e promesse tradite. È, al tempo stesso, causa e conseguenza del conflitto.
Per Israele resta un nemico mortale, da eliminare. Per l’Occidente è un’organizzazione terroristica da isolare. Per milioni di palestinesi è, nonostante tutto, il simbolo della loro resistenza. È questa complessità, fatta di violenza e di consenso, di autoritarismo e di assistenza sociale, di guerra e di governo, a rendere Hamas impossibile da ignorare. E a farci capire perché, finché continueremo a descriverlo solo come terrorismo, non riusciremo mai a comprendere le radici profonde di un conflitto che, ancora oggi, lascia dietro di sé macerie e morti.
NEL VIDEO: La storia dello Stato d'Israele è una delle più complesse e dibattute di sempre. La sua indipendenza nel 1948 fu l'inizio di una lunga sequenza di conflitti con i vicini stati arabi: dalla Guerra dei Sei Giorni allo Yom Kippur. La questione palestinese, con la Cisgiordania (West Bank) e la Striscia di Gaza, è un altro capitolo che la nascita di Israele ha aperto dal giorno dell'indipendenza. Nel video NOVA LECTIO si concentra sulle ragioni storiche che hanno portato alla nascita di Israele, a partire dalla fine del XIX secolo.
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