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24 Settembre 2025 - 11:25
"Chi gestisce questo gobbo è nei guai": i bulli hanno vinto e ora comandano il mondo
Un gobbo elettronico che smette di funzionare non dovrebbe fare notizia. È un imprevisto tecnico, di quelli che capitano anche nelle conferenze più banali, nelle aule universitarie o nelle sale consiliari di provincia. È successo invece al presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel giorno forse più simbolico del suo ritorno sulla scena internazionale, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. E ciò che poteva restare un semplice incidente di percorso si è trasformato in un segnale inquietante.
Appena iniziato il discorso, il teleprompter ha smesso di funzionare. Trump ha sorriso, ha detto che avrebbe parlato con il cuore, ma non ha resistito a sottolineare l’imbarazzo trasformandolo in accusa: «Chi gestisce questo gobbo è nei guai». Una frase pronunciata con tono sarcastico, che ha raccolto qualche risata in sala, ma che in realtà mette in luce un nervo scoperto della politica contemporanea: l’incapacità di distinguere tra la fragilità umana di un errore tecnico e la necessità di prendersela con qualcuno, magari con chi lavora nell’ombra, invisibile, senza protezione.
Un presidente, un uomo che occupa la carica più potente del pianeta, dovrebbe saper affrontare queste situazioni con tolleranza e naturalezza. Dovrebbe saper andare a braccio, come fanno gli oratori che conoscono la materia che stanno trattando e non hanno bisogno di uno schermo per recitare parole già scritte. Parlare senza rete, specie di fronte al mondo, è un gesto che restituisce autenticità e che oggi avrebbe potuto trasformare un guasto in un’occasione di credibilità. Invece no: Trump ha preferito imbastire la solita scena in cui c’è un colpevole da additare.
Ecco il punto centrale: non si tratta solo di un malfunzionamento tecnico, ma di come lo si gestisce. Nel momento in cui un presidente ridicolizza un tecnico, lo fa davanti alle telecamere, davanti alle delegazioni internazionali, davanti a un’opinione pubblica che cerca serietà e compostezza. La frase di Trump ha avuto il sapore di un’ennesima rivincita di quel linguaggio politico aggressivo che da anni sdogana il dileggio come metodo di governo. Non importa che sia stato un guasto casuale: l’importante è mostrare chi comanda, e farlo con la spavalderia del capo che umilia chi ha meno voce.
Questo ci dice qualcosa di più profondo: i bulli hanno vinto e ora comandano il mondo. La retorica dell’arroganza, del sarcasmo, del “ti licenzio su due piedi” non è più confinata a qualche reality televisivo, ma viene pronunciata dal podio delle Nazioni Unite. Non si tratta di ideologia, ma di metodo: far passare il messaggio che l’autorità si misura non nella capacità di gestire una crisi con calma, ma nel colpire il bersaglio più debole quando le cose non vanno come previsto.
La storia della politica è piena di incidenti tecnici, e non tutti si sono trasformati in gaffe. John Kennedy, Ronald Reagan, Barack Obama: tutti si sono trovati almeno una volta a dover parlare senza teleprompter, e in quelle occasioni hanno mostrato di saper padroneggiare i contenuti più delle carte. L’oratoria non è un optional, è parte integrante della leadership. Oggi invece la scena sembra dominata dall’idea che basti puntare il dito e la platea applaudirà comunque.
Quello che resta di questo episodio non è il gobbo rotto, ma la fotografia di un mondo in cui il potere si identifica sempre più con la brutalità verbale. E in cui l’errore non diventa mai occasione di crescita, ma strumento per dimostrare forza a spese di qualcun altro. La vera lezione che Trump avrebbe potuto dare sarebbe stata un’altra: sorridere, ammettere che i guasti capitano, dimostrare che un presidente sa parlare senza aiuti. Sarebbe stata la scena di un leader. Invece abbiamo assistito all’ennesima conferma di una politica che confonde la durezza con la statura.
Il guasto di un teleprompter non cambierà la storia, ma il modo in cui è stato gestito resta un segnale da leggere. In fondo, non si tratta di tecnologia, ma di stile di governo. E lo stile, quando diventa bullismo, dice molto più delle parole proiettate su uno schermo.
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