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22 Settembre 2025 - 11:36
Nell’era della VAR ogni tocco di mano diventa rigore, ma alla Juventus servono idee, non alibi
Un primato provvisorio che non strappa sorrisi, un rigore concesso per un tocco di mano minimo che pesa come un macigno, un post-partita in cui Igor Tudor punta il dito contro tutto: decisioni arbitrali, VAR, rosso non dato a Orban, calendario “compressissimo”. La Juventus lascia Verona con un pareggio che brucia e una sensazione fastidiosa: nell’epoca dell’occhio di falco digitale si fischiano penalty che, fino a qualche stagione fa, sarebbero stati archiviati come semplici episodi di gioco. È il cuore del problema: la mano “non naturale” è ormai un terreno scivoloso, una selva di interpretazioni dove la tecnologia amplifica il dettaglio fino a trasformarlo in colpa. Il pallone sfiora l’avambraccio, la dinamica è rapida, l’azione non cambia sostanza, ma il fermo immagine ingigantisce l’istante e il fischio arriva, quasi doveroso per protocollo. Al limite del ridicolo? Dipende da che lato lo guardi. Di certo è un calcio sempre più tecnocratico, in cui il contatto millimetrico diventa sentenza e il buon senso fatica a trovare respiro.
Tudor lo sa e s’infiamma. Contesta il rigore, si infuria per l’ammonizione mancata che, a suo dire, doveva essere espulsione e allarga il fronte citando la “disuguaglianza” del calendario. Toni duri, aggettivi appuntiti, il messaggio è chiaro: «Paghiamo decisioni sbagliate». Legittimo sfogo, certo, perché la conduzione gara e la gestione degli episodi lasciano spazio a discussioni. Ma qui finisce la comprensione e inizia il dovere di guardare in casa propria. Perché la Juve del secondo tempo si è di fatto consegnata al Verona, schiacciata da una stanchezza comprensibile — le fatiche con Inter e Borussia Dortmund non sono acqua — e da un tasso di imprecisione tecnica che non c’entra con arbitri o orari: uscite sporche, gestione ansiosa del pallone, scelte affrettate negli ultimi metri. Vlahovic si spegne, Yildiz si opacizza, i reparti si sfilacciano e tornano a galla limiti di tenuta difensiva e coesione in mediana già visti anche dentro risultati positivi.
La fotografia, allora, è duplice. Da un lato un’interpretazione di mano che, esasperata dal microscopio della VAR, produce rigori “da laboratorio”. Dall’altro una Juventus che si aggrappa agli episodi per spiegare un passo indietro evidente. Non è un dramma — un pari non sposta il mondo — ma è onesto dire che la squadra ha il dovere di pretendere di più da se stessa, perché il profilo di una big si costruisce nella capacità di non farsi trascinare dal contesto. E perché chi guida, più che alibi, deve indicare correzioni. Tudor, che è tecnico intelligente, passerà dalle parole ai fatti: sedute video, campo, gestione delle energie e qualche aggiustamento strutturale. È lì che si misura la solidità di un progetto.
Resta il capitolo calendario. L’allenatore sottolinea i due giorni di riposo in meno rispetto al Napoli e il confronto che lo irrita: «Tre partite in nove giorni per loro, sette per noi». Osservazione comprensibile, ma il punto è un altro: nell’epoca del calcio “spezzatino”, per tenere acceso il palinsesto si spalma tutto e il risultato è un mosaico in cui, a turno, tutti si ritrovano con un vantaggio o uno svantaggio di 24-48 ore.
Oggi tocca alla Juve recriminare, domani a qualcun altro. L’esempio è già scritto in agenda: alla 5ª di campionato il Napoli affronterà il Milan di Allegri arrivandoci da un lunedì 22, mentre i rossoneri avranno giocato sabato 20. Se c’è una squadra che, in quel caso, potrebbe parlare di riposo ridotto, è proprio quella di Conte. È il segno dei tempi: tra anticipi, posticipi, finestre europee, tv e sponsor, il “pari e patta” non esiste più, esiste l’alternanza. Per questo alzare barricate sul calendario rischia di suonare come una difesa d’ufficio: legittima, ma provinciale nella sostanza.
Il nodo centrale, tornando a Verona, è un altro: la Juve deve imparare a fare la Juve anche quando la corrente è contraria. Il rigore leggerissimo è una ferita che irrita e alimenta la narrazione dei torti, ma non spiega la scelta ripetuta del passaggio sbagliato, la coperta troppo corta quando il ritmo si alza, la difficoltà a cucire le due fasi quando la benzina cala. E qui entra in scena l’allenatore: la squadra ha bisogno di più ordine tra i centrali e la mediana, di linee di passaggio chiare quando la pressione avversaria morde, di un piano B quando Vlahovic non riesce ad accendere l’area e Yildiz non trova l’uno contro uno. È materia di campo, di letture, di gerarchie negli ultimi trenta metri.
Sulla VAR la discussione è destinata a proseguire. Il gioco ha accettato l’idea che la tecnologia sia un arbitro dell’arbitro, ma così facendo ha spalancato la porta alla iper-sanzione: se il frame blocca un braccio non perfettamente aderente al corpo, parte la chiamata; se la postura “aumenta il volume”, ecco il rigore. Il problema è che la fotografia non racconta forza, intenzione, impatto reale sull’azione. E quando la sanzione cambia una partita per un evento di natura quasi accidentale, il malumore è fisiologico. Detto ciò, il quadro non cambierà domani: finché il protocollo resta questo, le squadre devono mettersi in testa che difendere con le braccia educate e ridurre il rischio è parte del mestiere quanto attaccare bene.
Il campionato corre e il primato rischia di saltare già alla prossima curva se il Napoli dovesse capitalizzare il suo turno. Ci sta. Una grande non misura la sua ambizione sull’altalena di una classifica di settembre, ma sulla capacità di non deragliare dopo uno schiaffo arbitrale o una settimana asimmetrica. La strada resta incoraggiante, i numeri dicono che il lavoro è in crescita, ma la coerenza passa dal tagliare il rumore di fondo: meno lamenti, più campo. Perché questa Juventus che prova a ritrovare il suo spirito combattente non ha bisogno di alzare la voce: ha bisogno di alzare il livello. Punto.
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