Cerca

Cronaca

Detenuto obeso e diabetico bloccato in ospedale: il caso diventa emblema delle falle del sistema carcerario

Celle bariatriche tutte occupate, ospedale trasformato in estensione della pena e magistrato di sorveglianza chiamato a decidere

Detenuto obeso

Detenuto obeso e diabetico bloccato in ospedale: il caso diventa emblema delle falle del sistema carcerario (foto archivio)

A Cuneo da oltre due settimane un detenuto piemontese con grave obesità e diabete vive sorvegliato giorno e notte nel reparto di Medicina d’urgenza. Non si tratta di un ricovero temporaneo legato a un peggioramento improvviso, ma della conseguenza di una mancanza strutturale: in Italia non ci sono spazi penitenziari adeguati per chi soffre di obesità severa o disabilità motorie. Il risultato è che l’ospedale diventa di fatto un surrogato del carcere, con tutti i paradossi che questo comporta.

Il detenuto, che in passato era stato ospitato in una Rsa da cui però era stato allontanato dopo aver minacciato il personale, non ha trovato collocazione né nel carcere di Cerialdo né altrove. Le uniche celle attrezzate per persone con obesità, situate nel carcere di Torino, risultano già tutte occupate e non esistono prospettive di turnover a breve. Lo ha spiegato con chiarezza Roberto Testi, direttore del dipartimento di Medicina legale dell’Asl di Torino: “Sembra che tutte le celle d’Italia dedicate agli obesi siano occupate”. Parole che sintetizzano la fragilità del sistema, incapace di coniugare cura e custodia senza forzare i limiti delle strutture.

Le cosiddette camere di pernottamento per soggetti ristretti con disabilità motoria hanno porte più ampie, docce interne, rampe per il passaggio delle carrozzine e spazi che consentono un minimo di autonomia. Ma il numero di queste celle è esiguo, insufficiente rispetto alla domanda crescente. Così, quando le esigenze sanitarie diventano ingombranti, l’alternativa è l’ospedale. Con il risultato che il personale sanitario si trova a gestire non solo la cura, ma anche la custodia di chi dovrebbe invece rientrare sotto la responsabilità del sistema penitenziario.

Il caso di Cuneo ha inevitabilmente sollevato un nodo giuridico. Nelle prossime giornate il magistrato di sorveglianza dovrà decidere come procedere. Ma già ora la questione ha un respiro più ampio: riguarda il bilanciamento tra diritto alla salute e dovere della pena. Nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori non voluti, ricorda Testi, e lo stesso principio si applica anche a ipotesi estreme, come la restrizione alimentare a fini terapeutici. Il punto è capire come conciliare una condizione clinica complessa con l’obbligo della detenzione, senza trasformare l’ospedale in una sezione carceraria improvvisata.

Una delle ipotesi valutate è il trasferimento del detenuto alle Molinette di Torino, dove esiste un piccolo reparto dedicato ai detenuti e dove opera il centro regionale per la chirurgia bariatrica. Qui il problema non è la mancanza di competenze, ma l’assenza di una struttura organizzata esclusivamente per l’obesità. Lo ha chiarito Mario Morino, direttore della Chirurgia Generale 1: “Non esiste un reparto specifico per l’obesità, perché è una condizione che coinvolge vari specialisti”. Anche quando le professionalità ci sono, serve un coordinamento che coinvolga internisti, chirurghi, dietologi, psicologi e personale penitenziario, tutti chiamati a lavorare insieme in ambienti idonei.

La vicenda è resa più complessa da un precedente che pesa come un macigno. Mentre era ospitato in una residenza sanitaria assistenziale, il detenuto avrebbe minacciato di morte alcuni operatori. Da lì il rientro forzato in ambito penitenziario, con la difficoltà ulteriore di trovare una collocazione compatibile. È l’ennesimo esempio di come esigenze di sicurezza e bisogni clinici si intreccino, creando situazioni di difficile gestione per magistratura, Asl e amministrazione penitenziaria.

Quello che sta accadendo a Cuneo non è un episodio isolato, ma la cartina di tornasole di un problema sistemico. In Italia le carceri non sono state progettate per detenuti con patologie croniche gravi o disabilità ingombranti. Le poche celle attrezzate sono già sature e l’assenza di percorsi alternativi rende l’ospedale l’unica soluzione praticabile. Ma non si può pensare che la medicina d’urgenza diventi una succursale del carcere ogni volta che il sistema penitenziario mostra le sue crepe.

Il rischio è duplice: da un lato violare il diritto alla salute del detenuto, dall’altro piegare la funzione dell’ospedale a esigenze di custodia che non gli competono. Per questo il caso di Cuneo interroga non solo la magistratura di sorveglianza ma anche la politica, chiamata a colmare un vuoto che non è più sostenibile. Servono strutture dedicate, criteri trasparenti di allocazione e un coordinamento tra sanità e giustizia che consenta di gestire i casi complessi senza lasciare medici e infermieri a fare anche da guardie.

Il detenuto resta intanto piantonato in corsia, simbolo vivente di un sistema che non riesce a decidere se trattarlo come paziente o come recluso. La sentenza sul suo destino immediato arriverà nei prossimi mesi, ma il nodo di fondo resterà aperto: come garantire insieme dignità, sicurezza e cura in un Paese che non ha ancora trovato la risposta.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori