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Ombre su Torino
11 Settembre 2025 - 15:30
Un litigio davanti alla tv che si trasforma in tragedia.
Come se nulla fosse accaduto.
Un feroce rancore si è impossessato di lui per qualche minuto, ha colorato di nero pece i suoi pensieri, ma è stato un attimo perché, subito dopo, la sua è stata una serata tranquilla. Ha trascorso il tempo a parlare pacatamente con altre quattro persone. Si è aperto con loro, si è confessato, si è liberato di un peso.
Quando gli altri sono andati a dormire, si è disteso su una branda e si è assopito immediatamente. È il 15 febbraio 1970, fa freddo e il giaciglio dove si trova non ha una coperta, ma non serve. Dorme completamente vestito e, quando i brividi lo colgono e lo svegliano, chiude gli ultimi bottoni del cappotto che ha addosso e se lo tira su fin sopra il viso. Il soprabito lo scalda quasi a dovere, ma è umido e maleodorante: è ricoperto di sangue.
Arriva l’alba, si sveglia e chiede che gli venga portato un caffè. La tazza fumante gliela serve un giovane molto elegante, in divisa, con, di fianco, un uomo più anziano, anche lui ben vestito.
L’uomo che si appresta a fare colazione si trova in centro a Torino, in via Giolitti, ma non è in un albergo. I due che gli si parano davanti sono un appuntato e un sostituto procuratore. Ha passato la notte in una caserma dei carabinieri, in stato d’arresto per omicidio.
Nella sua mente, solo nella sua mente, tutto avrebbe potuto essere diverso. Poi ci si è messa la sfortuna, il fato avverso, una tragedia improvvisa. Non è colpa sua, non ci ha potuto fare niente.
Siamo a Gioiosa Ionica, in provincia di Reggio Calabria, esattamente a 1339 km da Torino. Il secondo dopoguerra è appena iniziato, non è importante conoscere la data, è un giorno qualsiasi. Vincenzo ha da poco seppellito sua moglie. È morta giovane, troppo anche per gli standard d’allora, forse per un incidente, forse per una malattia fulminante; anche questo ci interessa poco.
Quel che rileva è che Vincenzo è sconvolto da questa perdita e che, sempre nella sua testa e nelle sue parole, i familiari lo costringono a convolare a nozze con Maria Grazia, la sorella dell’ex coniuge.
Un matrimonio su cui aleggia lo spettro di una sposa che sta nell’aldilà, non voluto e per nulla felice, dal quale però vengono messi al mondo ben sette figli. Vincenzo maltratta Maria Grazia, la minaccia e la insulta di continuo, a volte le alza anche le mani. Nonostante questo, secondo il marito è la moglie a essere insopportabile e, ovviamente gratuitamente, a ingiuriarlo e disprezzarlo.
La loro relazione prosegue fino all’estate del 1969, quando, al culmine di continue liti, la coppia decide di separarsi. Si recano da un avvocato per iniziare le pratiche ma, arrivati nello studio del legale, Vincenzo cambia idea e, tornati a casa, scoppia l’ennesima baruffa. Questa volta, però, la cosa sembra più seria del solito: l’uomo impugna un coltello, minaccia la consorte e solo l’intervento della figlia Maria, 18 anni, evita il peggio.
Si mette in mezzo tra i genitori, fa abbassare l’arma al padre ma questo gesto, stavolta, non evita a Maria Grazia di andarlo a denunciare.
Vincenzo finisce in carcere e la sua famiglia (o meglio la parte che è rimasta ancora in Calabria perché i tre figli maggiori sono immigrati a Milano e in Germania) decide di partire per Torino. Qui il maggiore dei ragazzi della coppia abitava in un vecchio alloggio di ringhiera in via San Massimo 31; Maria Grazia, Maria, il quattordicenne Francesco e le piccole Natalina e Carmelina (10 e 7 anni) si trasferiscono lì.
Sembra che la loro vita, finalmente, sia cambiata e possa ricominciare da zero, a 1339 km dall’inferno che si sono lasciati alle spalle.
Il loro idillio, però, dura poco. Vincenzo viene scarcerato dopo 18 giorni in libertà provvisoria e, scoperto dove si trovano i fuggiaschi, li raggiunge, si fa assumere in una fonderia di Madonna di Campagna e torna ad abitare con loro.
A Torino è come se nulla fosse accaduto.
Il pater familias sta fuori di giorno per lavorare, spesso dopo la fabbrica si ubriaca e, una volta rincasato, ecco di nuovo le botte e gli insulti. La cosa va avanti per mesi, quasi tutte le sere, tanto che i vicini presto si abituano alle urla e neanche ci fanno più caso.
15 febbraio 1970, ore 22,30 circa.
Maria Grazia è già a letto come pure Francesco, Natalina e Carmelina. In soggiorno, davanti alla TV, rimangono Vincenzo e Maria. L’uomo decide che è ora di andare a dormire e che, ovviamente, se lui ha deciso che l’apparecchio si deve spegnere, sua figlia, anche se ha 18 anni, deve obbedire senza fiatare. Il problema è che quella sera la ragazza non solo non ha intenzione di sottostare agli ordini del genitore, ma gli risponde con un gesto di stizza: probabilmente è la prima forma di “ribellione” che l’intero nucleo familiare impone al padre-tiranno.
I due si mettono a litigare furiosamente costringendo Maria Grazia ad alzarsi per andare a vedere cosa accade. È a quel punto che, all’improvviso, Vincenzo fa di corsa il percorso a ritroso in camera da letto, apre l’armadio e tira fuori dalla giacca un coltello dalla lama lunga 25 cm. Torna in salotto e pronuncia una singola frase: “la faccio finita con tutte e due”.
Spaventata, Maria apre la porta dell’abitazione e scende per le scale urlando, chiedendo aiuto e tentando disperatamente di attirare l’attenzione degli altri inquilini. “Correte, vi prego, mio padre vuole uccidere mia madre!” grida ma, di tutta risposta, da dietro di una delle porte chiuse si sente rispondere: “sono fatti vostri, arrangiatevi”. Nessuno esce per vedere cosa stia accadendo, nessuno chiama la polizia o i carabinieri.
La giovane, allora, fa in tempo a rientrare in casa ed essere testimone di una scena che mai dimenticherà. Suo padre è in piedi col coltello in mano e la madre è in ginocchio in un lago di sangue. Vincenzo ha colpito al petto Maria Grazia con due fendenti, ma la donna è ancora viva, gli si aggrappa a una gamba e lo prega: “perdonami, fallo per i nostri figli più piccoli”. L’aggressore però mostra di non avere alcuna pietà. Sposta la moglie e la trafigge altre sette volte alla gola, uccidendola sul colpo. Quando vede che non si muove più, non pago, si rivolge verso Maria e tenta di ammazzare anche lei. La ferisce alle mani e alle braccia finché non arriva l’altro figlio, Francesco di 14 anni, che, vista la scena, gli si scaglia addosso provando a disarmarlo. L’assassino lo sposta con una manata, lo fa finire contro un muro e torna a occuparsi di Maria. La fanciulla è a terra, anch’essa piena di sangue, immobile.
Terminata la mattanza, Vincenzo scende in strada con in mano l’arma ancora insanguinata e si reca direttamente nella vicina caserma dei carabinieri di via Giolitti per costituirsi. “Arrestatemi, ho ucciso mia moglie e mia figlia” dice al piantone di guardia. Viene immediatamente ammanettato e rinchiuso in cella di sicurezza. Qui scopre che, in realtà, Maria non è morta ma è solo ferita. “Peccato” commenta.
Quasi come se si fosse liberato di un enorme peso, calmo e tranquillo, Vincenzo Zavaglia, 56 anni, confessa senza remore il proprio crimine. Racconta di rancori che ha sopito per anni, del fatto che la famiglia era tutta e costantemente contro di lui e che, in ogni caso, la moglie sapeva che prima o poi l’avrebbe uccisa.
Le sue parole sono contemporaneamente molto chiare ma particolarmente confuse. Ricostruisce perfettamente la dinamica dell’omicidio, ma fa difficoltà a spiegare esattamente il movente. Riferisce che la consorte gli avrebbe fatto dei non meglio precisati “torti” 20 anni prima, che la stessa avrebbe voluto farlo nuovamente arrestare senza motivo, addirittura arriva a rimproverarle di avere venduto degli appezzamenti di terreno in Calabria senza averlo preventivamente consultato.
Il processo si apre il 29 aprile 1971 e finisce, curiosamente ma non troppo, nella stessa pagina de La Stampa in cui si annuncia che da lì a breve una coppia di Moncalieri sarebbe stata la prima a ottenere legalmente il divorzio come previsto dalla legge n. 898 approvata il primo dicembre 1970.
In un’aula in cui i figli non si presentano a nessuna delle udienze, i giudici riconoscono Vincenzo Zavaglia colpevole dell’uxoricidio di Maria Grazia Morando, di maltrattamenti e di tentato omicidio della figlia Maria. Concesse le attenuanti generiche ed escluse le aggravanti della premeditazione e della crudeltà (il PM, nella sua requisitoria sosterrà che “la sua intenzione era di uccidere, non di infierire sulla moglie che, caduta sotto i primi colpi, ebbe la forza di rialzarsi e cercò di reagire”) viene condannato definitivamente, il 18 dicembre 1971, a 19 anni di reclusione.
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