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Francia nel caos: Macron ha fallito, i francesi scendo in piazza e assediano il Governo

Dispositivi di ordine pubblico straordinari, centinaia di fermi e una mozione contro il presidente: il quadro di una escalation politica e sociale che Parigi prova a contenere senza allarmismi

Francia nel caos

Francia nel caos: Macron ha fallito, i francesi scendo in piazza e assediano il Governo

La Francia entra in una fase nuova ma tutt’altro che pacificata: il conferimento dell’incarico a Sébastien Lecornu e il passaggio di consegne con François Bayrou avvengono mentre la protesta di “Blocchiamo Tutto” si materializza nelle strade con presìdi, tentativi di blocco della viabilità, scontri sporadici e una reazione dello Stato calibrata su uno schieramento eccezionale, segnale di una tensione alta ma gestita entro un perimetro di controllo.

Il ministero dell’Interno guidato da Bruno Retailleau ha predisposto un dispositivo “massiccio” con 80mila agenti tra polizia e gendarmeria, una presenza diffusa che ha consentito di contenere le interruzioni ai flussi principali pur in presenza di episodi di violenza e danneggiamenti, in particolare a Parigi e in alcune grandi città come Lione, dove gli agenti sono stati colpiti con sampietrini: un quadro sotto sorveglianza, con tolleranza zero verso i disordini e numerosi interventi di “sblocco” di tangenziali e arterie urbane occupate dai manifestanti.

A metà mattina il bilancio provvisorio parlava di quasi 200 arresti su scala nazionale, con impiego di lacrimogeni in più punti della capitale per disperdere i gruppi più aggressivi; nella notte precedente erano già state registrate sette manifestazioni spontanee, alcune proseguite fino all’alba, anticamera di una mobilitazione che i servizi stimavano attorno alle 100mila presenze complessive. Il dato, per quanto rilevante, resta però “inferiore” alle ondate più acute degli anni scorsi secondo i primi riscontri di stampa internazionale, segno che la capacità di deterrenza e il dispositivo preventivo hanno inciso nel contenere la curva dello scontro, pur non disinnescandone le cause.

 L’innesto politico è evidente: la nomina di Lecornu, figura di stretta fiducia dell’Eliseo e già ministro della Difesa, rappresenta il quinto cambio di guida a Matignon in un arco temporale ristretto, segnato dalla caduta del governo Bayrou sul terreno della disciplina di bilancio e da un Parlamento frammentato che rende ardua la costruzione di maggioranze stabili. Il profilo indicato da Emmanuel Macron ha il mandato esplicito di reperire intese per la sessione di bilancio 2026 e proseguire la linea pro-impresa e di contenimento della spesa, nel tentativo di evitare lo scenario di elezioni anticipate che i sondaggi suggeriscono rischioso per l’area presidenziale.

La contestazione di piazza, che intreccia sindacalismo diffuso, attivismo studentesco e galassie radicali, individua proprio nella combinazione di tagli, rallentamento degli investimenti sociali e riforme impopolari la miccia della mobilitazione, alimentata anche dalla percezione di una distanza crescente tra istituzioni centrali e territori.

L’elemento dirimente è che “Blocchiamo Tutto” non nasce nei corridoi di partiti e confederazioni storiche, ma si aggrega in rete come piattaforma di azione diretta, decentrata e per definizione difficile da neutralizzare con gli strumenti tradizionali dell’ordine pubblico. Negli ultimi giorni il Viminale francese aveva dato indicazioni di fermezza ai prefetti, alzando l’asticella dell’allerta e mettendo in campo un mosaico di misure che vanno dal rafforzamento dei reparti mobili alla sorveglianza delle infrastrutture critiche; la scelta operativa ha consentito di evitare blocchi prolungati delle tangenziali e dei nodi ferroviari, pur a fronte di incendi sporadici, attacchi a mezzi pubblici e tentativi di occupazione.

Il movimento, dal canto suo, ha esplicitato l’obiettivo di paralizzare il Paese per costringere governo e presidenza a ricalibrare l’agenda economica e sociale: una strategia di logoramento che mette a nudo i punti deboli di una macchina statale costretta a garantire continuità ai servizi essenziali nel mezzo di una contesa politica ancora aperta. Sullo sfondo si muove la partita istituzionale.

Il coordinatore di La France Insoumise ha annunciato e rilanciato una mozione di destituzione contro il presidente, iniziativa che nella nuova finestra parlamentare punta a superare la soglia simbolica delle 100 sottoscrizioni e ad aprire un fronte di logoramento politico più che un percorso realmente suscettibile di esito positivo, dato l’assetto delle forze in campo. La prassi recente insegna che questi tentativi possono avanzare nella procedura, essere dichiarati ricevibili e approdare in commissione, ma difficilmente convergono sui numeri necessari al passaggio finale; resta però l’impatto di immagine su una presidenza percepita da ampi segmenti dell’opinione pubblica come isolata e minoritaria.

 Nel mezzo di questo scenario, il racconto della “macronia” che aveva debuttato nel 2017 con la promessa di sgonfiare gli estremi si ritrova oggi a fare i conti con una realtà diametralmente opposta: una polarizzazione avanzata e un clima di sfiducia diffusa, che hanno spinto l’Eliseo ad arroccarsi sul cerchio più stretto di fedelissimi. La parabola dagli entusiasmi della sera del Louvre alla gestione odierna della crisi restituisce l’immagine di una leadership che ha consumato rapidamente il capitale politico di mediazione, finendo in un imbuto in cui ogni scelta — tagli, riforme, nomine — appare ad ampi settori come l’ennesimo tassello di una distanza non più colmabile.

In questo contesto, la designazione di Lecornu si presenta meno come rilancio e più come tentativo di stabilizzazione: obiettivo principale, blindare la sessione di bilancio, ridurre la volatilità parlamentare, sterilizzare i terreni di scontro più acuti, a partire dal costo della vita e dalla contrattazione sociale, e guadagnare tempo nella speranza che la curva della protesta non raggiunga i picchi visti ai tempi dei Gilet gialli o della riforma delle pensioni.

Anche per la piazza la sfida non è semplice. La prova di forza di oggi indica che la capacità di mobilitazione resta elevata, ma la dispersione organizzativa introduce limiti evidenti nella tenuta di medio periodo: senza una piattaforma rivendicativa univoca e una regia in grado di trasformare il dissenso in proposta, il rischio è che la protesta resti episodica o venga confinata a ritualità di scontro con le forze dell’ordine, terreno dove lo Stato dispone di strumenti asimmetrici di gestione e contenimento. Su questo crinale si misura anche il ruolo delle opposizioni strutturate: tra un NFP dai perimetri mobili e una destra radicale che osserva e capitalizza consenso, la contesa per l’egemonia del malcontento resta aperta.

L’orizzonte di elezioni anticipate rimane una variabile, soprattutto se la sessione di bilancio dovesse trasformarsi in un Vietnam parlamentare: per ora l’Eliseo la evita, consapevole che un voto oggi potrebbe consegnare a Marine Le Pen e al Rassemblement National un’ulteriore espansione, come già visto alle Europee e alle successive legislative con la dinamica dei ballottaggi e delle desistenze.

In questo senso, la strategia presidenziale appare un esercizio di equilibrio tra governabilità e sopravvivenza politica, con la consapevolezza che ogni passo falso può accelerare la perdita di centralità. (Per la linea di continuità delle riforme e i margini di manovra del nuovo premier, si veda il quadro Reuters; per genesi e dinamiche del movimento di oggi, le ricostruzioni Euronews e France 24).

Il perimetro dell’ordine pubblico resterà determinante nelle prossime ore: l’impiego massiccio di forze e la scelta di interventi rapidi su blocchi e accensioni di fuochi diffusi puntano a evitare il “contagio” tra nodi sensibili delle reti di trasporto e logistica, i veri obiettivi tattici di qualunque strategia di paralisi nazionale.

La giornata fornisce intanto due indicazioni: primo, la macchina statale mantiene capacità di contenimento senza ricorrere a misure eccezionali oltre l’ordinaria cornice giuridica; secondo, la percezione di una distanza fra istituzioni e società non si riassorbe con la sola polizia, perché nasce da fattori economici, redistributivi e identitari sedimentati negli ultimi anni.

La nuova compagine a Matignon dovrà affrontare nodi immediati: caro-energia, salari reali compressi, servizi pubblici percepiti in affanno, qualità della vita nelle banlieue, migrazioni e sicurezza urbana. Temi sui quali la destra di governo e l’area presidenziale hanno finora offerto risposte giudicate insufficienti da un’opinione pubblica che si è spostata ai poli, e che ora osserva Lecornu come prova generale di un passaggio di fase o come ultimo tentativo di manutenzione dell’esistente.

Nella comunicazione istituzionale prevale una postura di calma vigile: l’Interno parla di situazione controllata ma instabile, l’Eliseo stringe il campo sulle priorità e prova a spostare il focus sulla responsabilità nazionale nel mezzo di un contesto europeo e internazionale scosso da crisi simultanee.

L’escalation odierna non va letta come preambolo di un inevitabile precipizio, bensì come un test sul funzionamento degli anticorpi democratici francesi: capacità di garantire l’ordine pubblico senza degenerazioni, disponibilità al confronto politico senza scomuniche, costruzione di compromessi parlamentari su dossier economici cruciali. Da questo punto di vista, il dato degli arresti, l’uso proporzionato della forza e la rimodulazione in tempo reale dei reparti sul territorio suggeriscono che l’asticella repressiva non sia stata superata, ma che non ci sia spazio per zone franche o interruzioni prolungate dei servizi.

Resta l’incognita di una mozione di destituzione che ha scarso orizzonte di successo ma forte valore simbolico, e che potrà incidere sul clima in Assemblea e sulla narrazione pubblica se troverà convergenze trasversali sulla ricevibilità e sulle ragioni di merito.

La fotografia complessiva, dunque, racconta una Francia attraversata da correnti contrarie: nelle piazze una domanda di giustizia sociale e di rappresentanza; nelle istituzioni la ricerca di una stabilità a rischio; nell’economia reale segnali di affaticamento che impongono scelte rapide e impopolari.

In mezzo, un presidente che ha bruciato parte del suo patrimonio politico e un premier incaricato che dovrà negoziare dossier su cui nessuno dispone da solo della chiave di volta. La giornata si chiude con un messaggio duplice: la protesta è forte ma non irresistibile, lo Stato è vigile ma non onnipotente.

Per raffreddare l’escalation serviranno meno slogan e più politica: ascolto, compromessi, un’agenda sociale credibile e un bilancio sostenibile. Qui si giocherà la vera partita del macronismo 2.0 e del suo tentativo di rimanere il perno di una Repubblica che, nonostante tutto, continua a cercare equilibrio tra libertà, ordine e uguaglianza.

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