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04 Agosto 2025 - 13:00
Quando la scelta fa paura: Matteo Gamerro e suo padre raccontano la forza che resiste al dolore
La propaganda sul suicidio medicalmente assistito sta riempiendo i giornali e i notiziari italiani con una forza d'urto che scuote, divide, commuove. Dietro ogni storia c'è un dolore immenso e una dignità che chiede solo di essere riconosciuta. Ma c'è anche il timore, umano e comprensibile, che il racconto della morte oscuri quello della vita. Che mentre qualcuno lotta per il diritto a lasciarsi andare, altri si sentano abbandonati proprio quando avrebbero più bisogno di sentirsi visti, accolti, amati.
Perché introdurre una legge sul suicidio medicalmente assistito non significa incoraggiare nessuno a morire. Significa riconoscere che ci sono dolori profondi, e strade intime, e battaglie personali che meritano rispetto. Significa permettere a chi ha già conosciuto l'insopportabile di affrontare l'ultimo tratto con la stessa dignità con cui ha vissuto tutti gli altri. Ma questa consapevolezza non può, e non deve, mettere in ombra chi invece ogni giorno combatte per restare, per esserci, per continuare a credere che la vita possa ancora regalare bellezza. Come Matteo Gamerro.
Ha 46 anni, vive a Barone Canavese, e da più di vent'anni convive con la sclerosi multipla. Oggi non parla più, non cammina più, comunica con un puntatore oculare e vive su una sedia a rotelle. Ma non ha mai smesso di parlare al mondo. È lui l'anima dell'associazione "Si può fare con Matteo Gamerro ODV", nata attorno al motto: "Seminare forza affinché nessuno smetta di credere nella felicità". Un progetto diventato docu-film, poi cammino, poi missione condivisa.
«Una delle psicologhe che ho incontrato mi consigliò di pensare, ogni volta che perdevo un pezzo di autonomia, a come avrei potuto affrontare quella perdita» scrive Matteo, con gli occhi, il coraggio e una determinazione rara. Da lì è nato un blog, poi un libro. Poi il desiderio di portare la propria storia nelle scuole, con l'aiuto della sua professoressa di lettere, Emanuela Oria. Quando la voce ha iniziato a mancare, ha pensato a un altro linguaggio: il cinema.
«Quando ho visto il film “Ti porto io” ho pensato che una cosa simile potevamo farla anche noi. Così è nata l'idea di percorrere il tratto italiano della Via Micaelica, da Avigliana a Monte Sant'Angelo, 1300 km, con la mia carrozzina, con gli amici, con l'entusiasmo». Un'impresa riuscita, documentata, condivisa. Due film, decine di proiezioni, migliaia di occhi emozionati.
«Con la mia storia voglio dire che l'amicizia ci può far volare alti, che le difficoltà possono diventare opportunità, che insieme siamo più forti, che la felicità è a portata di mano anche quando sembra impossibile». Matteo non minimizza il dolore, ma sceglie di guardarlo negli occhi. E di trasformarlo.
Accanto a lui, sempre, suo padre Roberto Gamerro, oggi presidente dell'associazione. Gli chiediamo cosa pensi dei recenti casi di suicidio assistito raccontati in tv e sui giornali.
«Le persone devono potersi autodeterminare. Ma ogni volta che sento una notizia del genere mi chiedo cosa pensano Matteo e gli altri malati come lui. Vedo servizi televisivi che parlano della morte assistita come se fosse una vittoria. Ma è una sconfitta. Non di chi sceglie di morire, ma di chi gli stava accanto e non è riuscito a dargli un motivo per restare. È una sconfitta dolorosa».
Roberto non condanna, ma invita a riflettere. Non sul diritto, ma sulla narrazione. «Vorrei che la stessa attenzione fosse dedicata anche a storie come quella di Matteo. Storie che parlano di attaccamento alla vita, di resistenza, di gioia possibile anche nella fatica. Questo aiuterebbe davvero i malati. Non solo una legge, ma anche una cultura della speranza».
L'associazione oggi porta avanti progetti educativi e sociali. Con il docu-film, con incontri nelle scuole, con eventi pubblici. L'obiettivo è sempre lo stesso: seminare forza, offrire alternative, mostrare che si può vivere pienamente anche nella disabilità.
«Abbiamo elaborato la nostra missione così: aiutare le persone a credere nella felicità, anche nelle avversità. Anche quando tutto sembra perduto» dice ancora Roberto.
In questa Italia ancora divisa tra tabù e nuove sensibilità, tra leggi che mancano e coraggio civile, tra scelte intime e propaganda, la voce di chi sceglie di restare merita spazio quanto quella di chi sceglie di andarsene. Perché il dolore è personale, e lo è anche la speranza. Perché ciò che è poco per qualcuno, per qualcun altro può essere tutto. E perché la libertà è completa solo se contempla entrambe le strade.
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