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1.600 lavoratori a rischio, il colosso Marelli affonda nel silenzio delle istituzioni

La Regione scarica tutto sul tavolo ministeriale del 19 giugno mentre i sindacati chiedono garanzie. L’azienda in crisi ha attivato il “Chapter 11” negli USA

Piemonte, nuovo terremoto occupazionale

Piemonte, nuovo terremoto occupazionale: ma la politica regionale guarda altrove…

C’è un gigante dell’automotive che barcolla e potrebbe trascinarsi dietro centinaia di famiglie piemontesi.

Si chiama Magneti Marelli, è una delle realtà simbolo della componentistica auto italiana, e ha deciso di imboccare la strada del Chapter 11, il temuto capitolo 11 della legge fallimentare americana, quella che consente alle aziende indebitate fino al collo di cercare un accordo coi creditori per evitare la bancarotta. Una manovra che suona già come un’allerta rossa per il mondo sindacale e per le comunità che gravitano attorno agli stabilimenti produttivi. Ma che, dalle parti di Piazza Castello, sede della Regione Piemonte, sembra invece essere percepita come una leggera brezza estiva.

Sono oltre 1.600 i lavoratori coinvolti nei soli stabilimenti di Venaria Reale, senza contare il resto del personale nazionale, che porta il totale oltre le 6.000 unità. Un numero impressionante, che meriterebbe, se non una mobilitazione, almeno un piano d’azione concreto. E invece no: a rispondere in aula a due interrogazioni urgenti firmate da Gianna Pentenero (Pd) e Alberto Unia (M5S), è stato l’assessore Gianluca Vignale, su mandato dell’assessora al Lavoro Elena Chiorino. Il quale si è limitato a dire che la Regione sarà “presente” al tavolo ministeriale convocato per il 19 giugno a Roma. Per fare cosa? Per ascoltare. Nient’altro.

Vignale ha poi precisato, con tono rassicurante, che “per ora si tratta solo di una ristrutturazione finanziaria del debito, e non vi sono implicazioni occupazionali”. Frase che suona come una carezza sulla guancia, ma lascia il segno come uno schiaffo. Perché se c’è una cosa che sindacati, lavoratori e osservatori del settore sanno, è che quando si comincia col mettere ordine nei conti, troppo spesso si finisce con lo smantellare pezzi di produzione, spostare stabilimenti, tagliare posti. E questa volta, il rischio è concreto e immediato.

A ricordarlo, con voce chiara, è stato Alberto Unia, consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, che ha denunciato pubblicamente l’inerzia della Giunta Cirio: “Anche stavolta il Centrodestra non muoverà un dito. La Regione ha scelto di non prendersi alcuna responsabilità e di demandare tutto a Roma. Intanto 1.600 lavoratori vivono nell’incertezza totale, e nessuna garanzia è stata data sul mantenimento degli organici”.

Una posizione netta, quella del M5S, che denuncia il rischio che una crisi finanziaria si trasformi rapidamente in una crisi occupazionale, e che a farne le spese siano ancora una volta i lavoratori. Perché dietro le parole fredde come “ristrutturazione finanziaria” o “procedura concordataria” ci sono persone in carne e ossa, che lavorano da anni in uno dei distretti industriali più importanti del Piemonte e che oggi non sanno se domani potranno ancora mantenere il loro posto, la loro casa, la loro dignità.

Il Chapter 11 è stato avviato negli Stati Uniti, dove Marelli ha sede legale dopo essere stata ceduta nel 2018 al fondo KKR. L’operazione, secondo quanto riferito, ha ottenuto il consenso dell’80% dei creditori. Ma si tratta comunque di un piano che riguarda debiti per oltre 4 miliardi di euro: cifre che parlano da sole e che non possono certo essere archiviate come una questione tecnica o transitoria.

Ha votato a favore dell’ordine del giorno anche Rossana Schillaci, consigliera metropolitana di Venaria, rafforzando così il fronte trasversale a sostegno del superamento dell’utilizzo degli animali nei circhi.

Nel frattempo, i sindacati si sono già attivati per chiedere chiarimenti e garanzie. Un primo incontro con l’azienda c’è stato, ma le risposte sono state vaghe. Il timore, concreto, è che l’operazione finanziaria venga seguita da una “ottimizzazione” delle strutture, con tagli al personale, chiusure o riduzioni di produzione.

La Regione Piemonte, secondo Unia, avrebbe dovuto da tempo attivarsi con una strategia industriale chiara, e invece si limita a prendere appunti. “Speravamo in un impegno concreto – ha detto il consigliere – e invece ci siamo ritrovati con l’ennesimo scaricabarile. La Regione dice: se ne occupi il Ministero. Ma a noi non basta che siano presenti, vogliamo che difendano i lavoratori”.

Il caso Marelli riaccende anche una riflessione più ampia sul ruolo delle istituzioni regionali nel tutelare il tessuto industriale piemontese. In una fase storica in cui il settore automotive vive una trasformazione epocale – elettrificazione, digitalizzazione, nuovi modelli di mobilità – la politica dovrebbe anticipare le crisi, non inseguirle con dichiarazioni di circostanza. E invece, per ora, il governo regionale sembra agire col solito copione: minimizzare, attendere, sperare che qualcun altro ci pensi.

Intanto, a Venaria e non solo, si moltiplicano le preoccupazioni. Tra gli operai c’è chi parla apertamente di “silenzio assordante” da parte delle istituzioni, e chi spera che almeno il tavolo del 19 giugno possa servire a chiarire le reali intenzioni del gruppo Marelli. Ma anche lì, la Regione parte senza proposte, senza richieste precise, senza un piano di tutela occupazionale. Solo con le orecchie aperte. Come se bastasse.

E mentre la Regione aspetta, chi lavora alla Marelli aspetta anche lui. Solo che per chi lavora, ogni giorno che passa è un giorno in meno di sicurezza, un giorno in più di ansia, di paura, di attesa che qualcosa crolli. Come accaduto tante volte nel passato, quando i colossi industriali sono finiti nel mirino della finanza e la politica ha guardato da un’altra parte.

Chi è Magneti Marelli

Fondata nel 1919, la Magneti Marelli è una storica azienda italiana attiva nella produzione di sistemi e componenti per il settore automobilistico. Nata a Sesto San Giovanni dalla joint venture tra Fiat e Ercole Marelli, ha rappresentato per decenni un punto di riferimento dell'industria italiana nel campo dell'automotive, in particolare per l’elettronica, l’illuminazione, i sistemi di scarico, le sospensioni e i motopropulsori.

Nel corso della sua storia ha accompagnato la crescita dell’industria automobilistica italiana ed europea, diventando fornitore di importanti case automobilistiche in tutto il mondo, da Ferrari a BMW, da Fiat a Peugeot, da Renault a Ford, con un forte know-how tecnologico sviluppato soprattutto nei centri di ricerca e sviluppo in Piemonte e in Lombardia.

Nel 2018, l’azienda è stata ceduta dal gruppo FCA (Fiat Chrysler Automobiles) al fondo di investimento statunitense KKR, attraverso l'acquisizione da parte della giapponese Calsonic Kansei, anch’essa controllata da KKR. Dalla fusione è nato il nuovo gruppo globale Marelli, con sede legale negli Stati Uniti e una presenza capillare in oltre 170 stabilimenti e centri di ricerca in 24 paesi, per un totale di circa 50.000 dipendenti nel mondo.

La sede e i principali impianti italiani restano però in Piemonte e in Lombardia, dove Marelli continua a svolgere attività di progettazione, produzione e innovazione. Il polo di Venaria Reale, in particolare, ospita due stabilimenti e un centro di ricerca tecnologicamente avanzato, oggi al centro delle preoccupazioni occupazionali.

Negli ultimi anni, complice il contesto globale, la crisi del settore automotive e la transizione verso l’elettrico, il gruppo ha registrato difficoltà crescenti, culminate nella recente richiesta di protezione finanziaria attraverso il Chapter 11, una procedura fallimentare americana che consente alle aziende in crisi di ristrutturare il proprio debito senza cessare le attività.

La stampa americana racconta il fallimento annunciato

Dai dazi di Trump alla transizione elettrica: per Wall Street Journal, Financial Times e Reuters la crisi Marelli è il simbolo di un’industria sotto pressione. Nessuna garanzia per l’Italia, né per Venaria né per i 1.600 lavoratori piemontesi

Negli Stati Uniti non usano giri di parole. Per i giornali finanziari americani, il caso Marelli – l’azienda nata dalla fusione tra la storica italiana Magneti Marelli e la giapponese Calsonic Kansei – è la fotografia perfetta di un settore che non riesce più a reggere il peso del cambiamento. La procedura di Chapter 11, avviata negli Stati Uniti il 10 giugno, è solo l’ultimo atto di un fallimento che era già scritto. Non è la narrazione italiana che cerca di tenere in piedi il castello, ma l’analisi diretta e cruda di chi guarda i numeri e li mette nero su bianco.

Il Wall Street Journal, in uno degli articoli più approfonditi dedicati al caso, descrive Marelli come “uno dei principali fornitori dell’industria automobilistica globale, travolto da un mix letale di crisi pandemica, dazi doganali, rincari energetici e cambiamenti strutturali nel settore”. Il riferimento non è solo ai 4,9 miliardi di dollari di debiti accumulati, ma al fatto che l’azienda si è trovata schiacciata fra la fragilità dei clienti (come Nissan) e le pressioni per riconvertire in fretta la produzione verso l’elettrico, senza averne davvero la forza finanziaria.

Il WSJ sottolinea come il fondo KKR, che ha gestito la fusione Marelli-Calsonic nel 2019, si trovi ora a dover cedere il controllo dell’azienda agli stessi creditori, che si preparano a convertire il debito in equity. L’80% dei creditori ha già sottoscritto l’accordo, ma – come chiarisce il giornale – resta aperta una finestra di 45 giorni per eventuali offerte esterne. In altre parole: Marelli è sul mercato.

Reuters, da parte sua, ha evidenziato come l’azienda abbia ottenuto un finanziamento ponte da 1,1 miliardi di dollari, sufficiente per tenere in piedi la macchina produttiva durante la ristrutturazione, ma che nulla dice sul destino delle sue attività in Europa, e in particolare in Italia. “Il gruppo ha bisogno di un’urgente ridefinizione della sua strategia produttiva”, scrivono i corrispondenti, “e al momento non ha fornito alcuna rassicurazione sui siti fuori dagli Stati Uniti”. In sostanza: l’Italia è fuori dal radar.

Il report precisa anche che Marelli è oggi presente in 24 paesi, con oltre 170 impianti e centri di ricerca, e che il grosso delle sue difficoltà è legato al fatto di operare in un settore in piena trasformazione, dove l’elettrificazione, la digitalizzazione dei veicoli e i nuovi standard ambientali stanno ridisegnando completamente le filiere. E Marelli, semplicemente, non è riuscita a tenere il passo.

Anche il Financial Times, seppur con un’analisi più istituzionale, parla di “uno dei casi più emblematici delle difficoltà dei fornitori auto in epoca post-Covid”. Marelli, spiegano, aveva già tentato una ristrutturazione nel 2022, con tagli significativi al debito, ma i problemi strutturali non sono mai stati risolti. Anzi: l’aumento dei costi, l’incertezza geopolitica e la pressione concorrenziale da parte dei fornitori asiatici hanno finito per portare il gruppo sull’orlo del collasso.

Nessuno, fra i grandi giornali americani, si sbilancia su possibili ripercussioni occupazionali specifiche per l’Italia. Ma tutti convergono su un punto: il fatto che l’azienda sia finita sotto Chapter 11 non significa che i posti di lavoro siano salvi. Anzi, significa che i creditori controlleranno l’azienda, e faranno le scelte che riterranno più vantaggiose per rientrare dei crediti. Il futuro dei lavoratori europei, in questo scenario, diventa una variabile accessoria.

Quello che in Italia si discute come “una semplice ristrutturazione finanziaria” viene quindi raccontato negli USA per quello che è: una procedura di emergenza per salvare il salvabile. E se la stampa americana suona l’allarme, è difficile capire come si possa, qui, continuare a minimizzare.

La verità è che Marelli, per gli Stati Uniti, è già un caso internazionale. Per l’Italia, rischia di diventare solo l’ennesima storia di industria svenduta e lavoratori lasciati soli.


Fonti americane principali:

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