Cerca

Attualità

Mense scolastiche, un lusso per molti: i costi nel Canavese schiacciano le famiglie

Con tariffe che sfiorano i 6 euro a pasto e un servizio spesso sotto accusa, la refezione scolastica pubblica si trasforma in un salasso per le famiglie a reddito medio. E nel Canavese, tra aumenti, tagli e disservizi, la situazione è ancora più esasperante

Mense scolastiche

Mense scolastiche, un lusso per molti: i costi nel Canavese schiacciano le famiglie

Mangiare a scuola, per migliaia di bambini italiani, è diventato un privilegio a caro prezzo. La mensa scolastica, servizio pubblico essenziale per conciliare i tempi lavoro-famiglia e garantire un’alimentazione corretta agli studenti, presenta oggi un conto salato che pesa sempre di più sui bilanci domestici. In Italia, secondo i dati aggiornati al 2025, il costo medio mensile per un pasto scolastico si aggira attorno agli 85 euro, equivalenti a circa 4,25 euro a pasto. Una cifra che, in sé, potrebbe sembrare affrontabile. Ma il quadro cambia radicalmente se si osservano le differenze regionali, l’assenza di una regia nazionale e soprattutto l’impatto di queste cifre su famiglie con più figli e ISEE nella fascia “più alta”.

In regioni come la Basilicata e l’Emilia-Romagna, le cifre superano i 100 euro al mese. In Sardegna e in alcune province del sud si riesce ancora a stare sotto i 70. Ma la vera frattura si manifesta a livello comunale, dove ogni amministrazione adotta tariffe, esenzioni e sconti in modo totalmente autonomo, spesso creando una giungla incomprensibile per le famiglie.

Tra le realtà più onerose c’è il Canavese, dove in molti comuni le tariffe non solo superano la media nazionale, ma sono aumentate negli ultimi anni senza che ciò sia stato accompagnato da miglioramenti del servizio. A Rivarolo Canavese, per esempio, la fascia più alta paga 5,60 euro a pasto, con un incremento netto rispetto all’anno precedente. A San Giorgio Canavese,(come si legge sul sito ufficiale del comune) la cifra è di 4,15 euro per i residenti senza agevolazioni e 6,20 euro per i non residenti. A San Benigno, si arriva a 5,80 euro a pasto per chi ha un ISEE superiore a 10.000 euro o proviene da fuori comune. Fanno eccezione pochi comuni virtuosi come Romano Canavese, dove chi ha un ISEE sotto i 2.000 euro può accedere gratuitamente alla mensa.

Numeri alla mano, una famiglia con due figli che frequentano la scuola pubblica e non hanno accesso a sconti – perché rientrano nella cosiddetta “fascia alta” – arriva a spendere oltre 2.000 euro all’anno solo per i pasti scolastici. Se si sommano eventuali costi per pre e post scuola, trasporti, materiale didattico, contributi volontari e attività integrative, il quadro diventa insostenibile. Il paradosso? Non stiamo parlando di famiglie ricche. In molti casi, basta avere due stipendi medio-bassi, un mutuo sulla prima casa e magari un’auto a rate per essere esclusi da qualsiasi forma di agevolazione. Nessun lusso, solo normalità: ma pagano come se fossero benestanti.

Eppure, in cambio di questo investimento, il servizio offerto non sempre è all’altezza. Negli ultimi anni, diverse criticità nelle mense scolastiche canavesane hanno sollevato polemiche e indignazione. A partire dalla messa in liquidazione di GMI Servizi, colosso della ristorazione che gestiva i pasti in numerosi comuni e che ha abbandonato il territorio lasciando dietro di sé confusione, subentri improvvisati e proteste. In un caso emblematico, l’unica cuoca di una scuola del Canavese ha scioperato contro il nuovo gestore, Markas, che non avrebbe rispettato la clausola sociale di continuità lavorativa. Bambini senza mensa e famiglie costrette ad arrangiarsi: succede anche questo, e succede spesso.

Il problema, però, è più profondo e strutturale. Non si tratta solo di chi gestisce la mensa, ma di come viene concepita la refezione scolastica in Italia. Da servizio pubblico essenziale si è trasformato, in molti territori, in un costo privatizzato sulle spalle delle famiglie, con modelli tariffari che non tengono conto delle reali condizioni economiche ma si affidano esclusivamente all’ISEE, un indicatore spesso miope, che non fotografa le situazioni complesse. Una coppia con due figli, due contratti a tempo indeterminato da 1.300 euro al mese e una casa con mutuo supera facilmente i 25.000 euro di ISEE e finisce a pagare la tariffa massima, come se vivesse nell’agiatezza.

In questo contesto, parlare di equità è difficile. E la domanda scomoda sorge spontanea: è davvero giusto che per poter lavorare e mandare i figli a scuola in sicurezza, una famiglia debba sborsare quasi quanto per una seconda rata del mutuo? Si può ancora parlare di scuola pubblica, se mangiare in mensa diventa un lusso?

La verità è che manca una regia nazionale, mancano standard minimi di qualità, mancano politiche redistributive che tengano conto delle nuove povertà, ma anche delle nuove fragilità di chi “povero” non è, ma vive sul filo. Intanto, in molte regioni, si sperimentano modelli di mensa biologica, a km zero, a costo calmierato, ma nel Canavese le famiglie devono accontentarsi di ciò che passa il convento, pagando pure caro.

Il diritto all’istruzione passa anche da un pasto dignitoso. E mentre gli slogan politici celebrano la scuola inclusiva, i fatti raccontano un’altra verità: che a tavola, nella mensa pubblica, non tutti i bambini hanno lo stesso posto.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori