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Tumori, 17 ricercatori italiani premiati al congresso mondiale ASCO: un trionfo internazionale che mette in luce la miseria della ricerca in Italia

Dall’Università di Pisa al Dana-Farber Cancer Institute, i nostri scienziati brillano sulla scena globale dell’oncologia. Ma oltre l’orgoglio, resta la ferita aperta della fuga dei cervelli. Ecco cosa significa, davvero, essere italiani nella scienza oggi

Tumori, 17 ricercatori italiani

Tumori, 17 ricercatori italiani premiati al congresso mondiale ASCO

A Chicago, davanti alla platea più autorevole dell’oncologia mondiale, diciassette giovani ricercatori italiani si preparano a salire sul palco. Sono stati selezionati tra migliaia di scienziati provenienti da tutto il pianeta per ricevere il prestigioso Conquer Cancer Foundation Merit Award, uno dei riconoscimenti più ambiti dell’ASCO 2025, il Congresso dell’American Society of Clinical Oncology. È il tempio della medicina che cura i tumori, dove ogni anno si gettano le basi per le terapie del futuro. E in quel tempio, l’Italia brilla. Ma con metà luce riflessa.

Dei 17 premiati, infatti, otto lavorano ancora in Italia, in centri di eccellenza sparsi tra Pisa, Napoli, Milano, Modena e Padova. Ma nove hanno scelto — o dovuto scegliere — di lasciare il Paese. Oggi sono al Dana-Farber Cancer Institute, all’Institut Gustave Roussy, al Memorial Sloan Kettering, all’Université Libre de Bruxelles, alla University of Southern California. Hanno firmato pubblicazioni, guidato progetti, realizzato studi che potrebbero cambiare la pratica clinica in oncologia. Ma l’hanno fatto lontano da casa.

A ricevere il premio ci sono, tra gli altri, Veronica Conca (Università di Pisa), Chiara Mercinelli (San Raffaele), Marta Padovan (Padova), Angela Viggiano (Federico II di Napoli). Ma anche Paolo Tarantino, Caterina Sposetti e Pietro De Placido, oggi al Dana-Farber, dove la ricerca viaggia su binari certi, finanziati e meritocratici. I loro studi sono stati definiti di “elevato interesse ed innovatività”, con ricadute reali sulla cura dei pazienti.

Il tema dell’ASCO 2025 — “L’arte e la scienza della cura del cancro: dalla conoscenza all’azione” — non è un esercizio retorico. È una direzione precisa: portare la ricerca nei reparti, dare una prospettiva concreta alla scienza, accorciare la distanza tra laboratorio e letto del paziente. Ma per fare questo servono risorse, strutture, stabilità, fiducia nel futuro. E qui, per molti giovani italiani, inizia il problema.

Secondo i dati Istat e OCSE, l’Italia spende appena l’1,5% del PIL in ricerca e sviluppo, contro il 2,8% della Francia e il 3,5% della Germania. Il risultato? Ogni anno, tra i 15.000 e i 30.000 giovani professionisti altamente qualificati lasciano il Paese. Tra loro, migliaia sono biologi, oncologi, farmacologi, data scientist, spesso con dottorati conseguiti in università italiane, ma senza un posto di lavoro stabile, senza un laboratorio finanziato, senza una carriera prospettica.

Il paradosso è tragico: l’Italia forma teste d’eccellenza, poi le regala agli altri Paesi. Una diaspora silenziosa che priva l’intero sistema sanitario di potenzialità straordinarie. Un esodo che costa. Perché formare un medico o un ricercatore specializzato costa allo Stato tra i 200.000 e i 300.000 euro. Ma mentre il Ministero dell’Università finanzia a fatica borse da 1.200 euro al mese, gli istituti stranieri offrono stipendi tripli, libertà progettuale e infrastrutture all’avanguardia.

Per molti, la scelta di partire non è dettata solo da ambizione, ma da sopravvivenza professionale. Chi resta in Italia — come alcuni dei premiati di Chicago — lo fa spesso tra mille difficoltà: contratti a tempo determinato, fondi scarsi, burocrazia ossessiva, concorsi eterni. Eppure, alcuni resistono. Ma a che prezzo? In un’indagine di CNR e FLC CGIL del 2023, il 42% dei giovani ricercatori italiani dichiarava di voler cambiare lavoro nei successivi due anni, e non per mancanza di vocazione, ma per impossibilità di progettare un futuro.

Il caso ASCO 2025, con l’Italia protagonista, è l’ennesimo promemoria di quello che potremmo essere, se solo volessimo. I nostri scienziati sono riconosciuti e celebrati fuori, mentre dentro vengono spesso ignorati, sottofinanziati o sfruttati. E non si tratta solo di una perdita culturale: è una sconfitta economica, etica, strategica. Perché trattenere il talento significa produrre innovazione, brevetti, terapie, sviluppo, occupazione.

In oncologia, ogni ritardo nella ricerca è un paziente in meno che sopravvive. Ogni laboratorio che chiude per mancanza di fondi è un farmaco che non si scopre, una mutazione genetica che non si studia, una possibilità che sfuma. E ogni ricercatore che parte è una speranza che cambia bandiera.

L'orgoglio per questi diciassette italiani sul podio dell'oncologia è legittimo. Ma non deve anestetizzarci. Deve anzi spingerci a porci una domanda precisa: cosa stiamo facendo per farli tornare? La risposta, purtroppo, è spesso “niente”. Nessun piano di rientro strutturato, nessun incentivo serio, nessuna vera inversione di rotta. E allora il plauso diventa ipocrisia. La standing ovation, una passerella sterile.

La ricerca italiana ha bisogno di una rivoluzione culturale e politica. Servono più borse, più concorsi rapidi, più laboratori, più contratti stabili, più rispetto. Perché non c’è eccellenza senza dignità. E non c’è futuro se i nostri migliori cervelli sono costretti a scappare.

Chicago li ha premiati. L’Italia li ha lasciati andare. Fosse una medaglia al merito, sarebbe anche una medaglia alla vergogna.

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