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Licenziato per una vignetta, Karim Afifi sfida Sitaf e i silenzi del potere

La sua matita ha colpito nel segno, ma adesso rischia di pagare con il posto di lavoro. Dopo 23 anni di servizio, l’ex dipendente Sitaf finisce al centro di un caso che intreccia diritti, giustizia e satira in azienda

Licenziato per una vignetta

Licenziato per una vignetta, Karim Afifi sfida Sitaf e i silenzi del potere: “Ho disegnato la verità”

Un foglio, un tratto ironico, una caricatura che fa discutere. Da lì comincia l’odissea di Karim Afifi, 45 anni, per 23 al servizio della Sitaf, la società che gestisce il traforo del Frejus. Non un episodio isolato, ma un licenziamento esploso come detonatore nel dibattito su libertà di espressione e diritti dei lavoratori. Al centro: una vignetta satirica che ritrae il suo capo, Salvatore Sergi. Non una denuncia, non un’indagine interna. Solo una matita scomoda, interpretata come offesa.

La decisione dell’azienda è stata drastica: via senza preavviso. Ma Karim non si è piegato. Ha impugnato il licenziamento, denunciando una violazione del diritto alla libera espressione. Attorno a lui si è raccolto un fronte trasversale: colleghi, sindacalisti, avvocati, semplici cittadini. Un coro che chiede reintegro, giustizia e una riflessione pubblica su quanto la satira possa – e debba – trovare spazio anche nei luoghi di lavoro.

Quello che sembrava un caso isolato si inserisce invece in un contesto inquietante. Mentre il nome di Salvatore Gallo – altro dirigente vicino all’ambiente Sitaf – emerge nell’inchiesta Echidna per infiltrazioni della ‘ndrangheta nel nord-ovest e per un sistema di favori e corruzione, la vicenda di Afifi assume un valore ancora più simbolico. Perché in gioco non c’è solo un posto di lavoro, ma il diritto di raccontare – anche con l’ironia – ciò che si vede da dentro. E oggi, in molte aziende, quello sguardo dà fastidio.

Afifi non è un agitatore. Parla con compostezza, ma con determinazione: “Non ho insultato nessuno. Ho disegnato una realtà che conoscevo. E questo è bastato per essere considerato pericoloso.” Chi lo sostiene ricorda il suo impegno, la sua puntualità, il suo essere “uno che non ha mai fatto casino”. Un tecnico, un lavoratore. Eppure oggi, per la Sitaf, è diventato un caso da silenziare.

Sotto la superficie si muove una domanda più grande: quanto è libera la voce dei dipendenti in un’azienda dove la gerarchia pesa come un macigno? E soprattutto, cosa accade quando quella voce tocca nervi scoperti, come i legami tra affari, politica e criminalità organizzata? A Torino, questa domanda brucia. E riguarda tanti.

Il processo va avanti, ma la vicenda è già diventata un caso di scuola. Organizzazioni sindacali, giuslavoristi e attivisti per la libertà d’espressione la stanno studiando con attenzione. Se Karim Afifi dovesse vincere, potrebbe aprire una breccia importante nella rigidità aziendale italiana. Se invece venisse definitivamente allontanato, il messaggio sarebbe chiaro: la satira ha un prezzo. E a pagarlo, sono sempre i più fragili.

In questa storia, la matita è più potente della voce. Ma anche più rischiosa. Non è solo un licenziamento. È un test sulla tenuta democratica dentro i luoghi dove il potere non si elegge ma si subisce. E in cui il dissenso, anche disegnato, è ancora visto come un tradimento.

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