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Elkann lancia l'allarme "auto" per l’Europa ma abbandona l’Italia

Parla di industria da salvare, ma intanto Stellantis smonta pezzo per pezzo gli stabilimenti italiani

Elkann lancia l'allarme "auto" per l’Europa ma abbandona l’Italia

Elkann

Il destino dell’automotive europeo è appeso a un filo? Forse sì. Ma c’è anche chi da quel filo ha deciso di allontanarsi già da tempo. Mentre il presidente di Stellantis, John Elkann, e l’ad di Renault, Luca De Meo, lanciano un nuovo grido d’allarme dalle pagine del Figaro, viene spontaneo chiedersi cosa, concretamente, Stellantis abbia fatto – o meglio, non abbia fatto – per l’Italia negli ultimi anni.

Le parole di Elkann non sono certo banali: “Nel 2025 la Cina produrrà più auto di Europa e Stati Uniti messi insieme. È un momento cruciale. In Europa discutiamo con Stati che hanno poco margine di manovra e una Commissione che ha poca capacità di agire”. E ancora: “Non chiediamo aiuti, ma che ci lascino lavorare, innovare e portare alle persone veicoli puliti e accessibili”. Parole condivisibili. Ma che, lette dall’Italia, suonano un po’ come quelle del vicino di casa che si lamenta del condominio, ma nel frattempo ha smesso da tempo di riparare il tetto della sua mansarda.

Già, perché mentre si invocano politiche industriali forti, il nostro Paese assiste da anni a una progressiva dismissione delle ambizioni nazionali di Stellantis. Stabilimenti come quelli di Mirafiori, Cassino o Melfi sono diventati emblema non di un’industria che innova, ma di un colosso che razionalizza, taglia, centralizza. E soprattutto delocalizza. La storica sede di Torino, un tempo cuore pulsante dell’auto italiana, oggi appare sempre più periferica nelle strategie del gruppo, che guarda alla Francia, agli Stati Uniti, al Nord Europa. Ovunque, insomma, tranne che qui.

Il caso di Mirafiori è emblematico: annunci su annunci, eppure la produzione reale è scesa a livelli imbarazzanti. I modelli prodotti in Italia sono pochi, e spesso non centrali nella gamma. I numeri degli operai impiegati continuano a calare, la cassa integrazione è diventata cronica e la prospettiva per migliaia di lavoratori è quella di un lento smantellamento mascherato da “transizione”.

In questo quadro, sentire Elkann parlare della necessità di “decisioni rapide” e della volontà di “portare ai cittadini veicoli desiderabili” fa riflettere. Perché in Italia, Stellantis ha portato – a voler essere generosi – incertezza, promesse vaghe e una crescente distanza tra il vertice e i territori. Dove sono le piccole auto a basso costo per il mercato italiano? Dove sono i piani occupazionali stabili, gli investimenti sulla filiera, la formazione professionale, l’innovazione nei distretti industriali storici?

A tutto questo si aggiunge un altro nodo: l’identità industriale italiana. Dopo la fusione con PSA, Stellantis è diventata un gigante transnazionale, ma molti si chiedono se in quel gigantesco mosaico ci sia ancora posto per l’Italia. Lo stesso Elkann ricorda che “Francia, Italia e Spagna sono i Paesi più interessati”, e che insieme “valgono più della Germania in termini di produzione”. Ma se questo è vero, perché allora l’Italia continua ad avere un ruolo marginale, di retrovia?

Anche le parole di Luca De Meo, più orientate alla regolamentazione, pongono interrogativi pesanti sull’Europa: “Tutti i Paesi del mondo proteggono la loro industria automobilistica, tranne l’Europa”. È un’accusa che trova fondamento. Ma viene spontaneo chiedersi perché – se tutto è così chiaro ai vertici – Stellantis non abbia giocato un ruolo più incisivo nel costruire una risposta coordinata, o almeno nel proporre con forza un modello italiano credibile, sostenibile e strategico. Invece, ci siamo trovati di fronte a silenzi, rinvii e, troppo spesso, decisioni prese altrove.

Certo, il futuro è incerto. Ma se è vero che, come dice Elkann, non si tratta di essere “nostalgici del XX secolo”, allora è lecito aspettarsi che le grandi aziende diano l’esempio nel XXI. Non solo parole e interviste preoccupate, ma azioni concrete nei territori in cui sono nate e cresciute. Perché l’industria non è fatta solo di strategie globali, ma anche di lavoratori, fabbriche, scuole, strade, famiglie. E in Italia, tutto questo esiste ancora. Ma ha sempre più bisogno di certezze, non di slogan.

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