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Ombre su Torino

Sesso, droga, galera e sangue: la parabola tragica di Claudia Vaccaro

Figlia di operai, schiava dell’eroina, vittima di uomini e violenza: Claudia Vaccaro finisce crocifissa in un campo a 28 anni

La fine tremenda di Claudia Vaccaro

Quando finisce sul giornale la prima volta Claudia porta il cognome del marito, Giglio. È il 1976 e una sua lunga intervista, divisa in tre parti, viene pubblicata su Stampa Sera tra aprile e maggio di quell’anno. Una foto la ritrae con dei Rayban a goccia dalle lenti dalla tonalità media che nascondono appena le occhiaie, una bandana sulla testa, le mani incrociate con una sigaretta tra le dita e un’espressione densa di emotività perfettamente in linea con la sua testimonianza.

L’incipit del primo dei tre pezzi è di 24 parole. “Claudia Giglio, 27 anni, un figlio di tre anni, ex laureanda in architettura, tossicomane, ex insegnante ai corsi per adulti a Pinerolo, ex carcerata”. Questa terribile mini-biografia serve da preambolo per raccontare “L’inferno nel carcere femminile” l’allucinante esperienza della donna nei penitenziari dove è stata rinchiusa. Una narrazione lucida e sconvolgente che, però, è solo una parte della tragica esperienza di vita della sua protagonista.

Claudia Vaccaro (questo il suo cognome da nubile) è la figlia unica di una famiglia proletaria che abita in una casa popolare in zona Lingotto. Estroversa, simpatica e dai modi eccentrici, tenta di affrancarsi dai genitori dando ripetizioni e insegnando in una scuola per militari a Pinerolo, affiancando questa attività agli studi ad architettura.

È in questo periodo che conosce l’uomo che, quando compie 22 anni, diventa suo marito: Sergio Giglio. Tossicodipendente, è lui a introdurre Claudia al mondo dell’eroina ma non solo. La spinge a mollare l’insegnamento perché, a suo parere, l’avrebbero pagata troppo poco spianando la strada a una vita di espedienti per procurarsi il danaro utile per acquistare gli stupefacenti.

I due entrano ed escono dalla galera condannati per vari furti, ricettazione e una tentata estorsione. Quando è a piede libero, probabilmente, la vita di Claudia è addirittura peggiore che dietro alle sbarre. Nonostante la coppia abbia un figlio nel 1974 (che però verrà affidato ai genitori di lei) la ragazza, che nel frattempo ha iniziato a guadagnare prostituendosi, viene picchiata e maltrattata moltissime volte dal coniuge.

All’apice di questo rapporto malato, nel 1975, un presunto accoltellamento da parte di Giglio porta i due a separarsi. La ragazza si divide tra uno dei salotti di Torino, piazza Carlo Alberto (che, in quel momento, viene descritta come una piazza di spaccio a cielo aperto) e corso Massimo D’Azeglio a Torino, dove vende il suo corpo.

Angela, una ragazza di 19 anni che l’ha conosciuta per strada, la descrive così: “E’ sempre piuttosto triste, ma buona, si interessa ai nostri problemi, pronta a consolarci. Non fa mistero del fatto che si prostituisse e rubasse nelle case per la droga. La ammiro perché è intelligente, con una grande personalità. Ha provato anche a smettere con la droga: si è rivolta a medici, assistenti sociali, giornali ma nessuno ha potuto o voluto aiutarla. Con quella fedina penale lì la accettano solo nel mondo della malavita o dei tossici”.

Finito il matrimonio con Giglio, incontra un altro uomo. Si chiama Ezio Rossi, conosciuto nell’ambiente come “Chicco”. 26 anni, di cui già 10 passati in galera, un’informativa giudiziaria lo definisce “turbolento, politicizzato, indesiderato e pericoloso per sé e per gli altri”.

Colleziona il record di 35 trasferimenti tra le varie case circondariali, finendo due volte in manicomio e per decine di ore su un letto di contenzione. Ladro d’auto e topo d’appartamenti, si autoproclama rivoluzionario e appartenente alle BR, facendosi notare per essere evaso per partecipare al funerale del padre (venendo riacciuffato poco dopo) e per aver preso parte a una sommossa alle Nuove dopo l’uccisione di un’eroinomane nel carcere di Firenze.

Spaccia e si buca anche lui, ma, in apparenza, il loro amore sembra sincero come testimoniato da diverse lettere che i due si scambiano sia da carcerati che in libertà.
Poi, però, arriva il 1977.

La ragazza, nei primi mesi dell’anno, sembra essere determinata a uscire da quel tunnel. Va ad abitare dall’unico suo amico “pulito” in una mansarda di via Massena e prende contatti con un neuropsichiatra per iniziare, stavolta sul serio, a disintossicarsi. Nel frattempo continua a fare uso di eroina e, a fine gennaio, finisce di nuovo dentro dopo essersi fatta trovare a rubare in un’abitazione in via Monginevro.

Esce il 21 marzo. Chicco, invece, dopo essere stato trasferito nel carcere di Fossano, evade il 23 febbraio, tornando a Torino da latitante. Riesce a restare a piede libero fino alla notte tra il 12 e il 13 aprile. Inseguito dai carabinieri, lo prendono in via Bertola a bordo di un’Alfetta rubata. Al momento dell’arresto scende dall’auto strafatto, pistola alla mano e con un serramanico in tasca ma viene immobilizzato e trascinato in caserma. Qui gli viene contestata l’evasione ma anche un crimine molto più grave. Qualcosa per il quale, stavolta, rischia l’ergastolo.

25 marzo 1977.

A Venaria, nei pressi de La Mandria, c’è un’enorme tenuta agricola che si chiama La Bellotta. Ai tempi, la zona (tra i campi) è frequentata da coppiette in cerca di intimità. Sono circa le 22,30 quando due amanti sentono in lontananza le grida d’aiuto di una giovane. Dopo aver girato un po’, al buio, nel tentativo di individuarne la posizione, la trovano ma è già cadavere.

Lo spettacolo è agghiacciante. È in un lago di sangue, a pancia in giù, con i gomiti in avanti appoggiati sul terreno: l’assassino gli ha sparato quattro volte agli arti, come se volesse crocefiggerla. Un proiettile le ha trapassato il braccio e ha colpito il cuore mentre un altro le ha reciso l’arteria femorale della gamba sinistra. La poveretta non è morta subito ma, anzi, è riuscita a urlare per farsi aiutare e poi ha tentato di strisciare per mettersi in salvo, come dimostrato dai pantaloni strappati e sporchi di fango.

L’autore di quello scempio ha frugato nella borsa ma ha lasciato i documenti da cui si è potuto immediatamente risalire all’identità della vittima: è Claudia Vaccaro.

Le indagini dei carabinieri vedono sfilare in caserma tantissimi suoi amici. Molti sono sbandati, alcuni non capiscono neanche dove si trovano e perché, buona parte si presenta appena dopo essersi iniettati l’ultima dose. Bisogna scremare tra i racconti di fantasia, tra ricostruzioni inconcludenti e rivelazioni fatte per ripicca o per vendetta personale. Dopo aver incrociato un numero impressionante di testimonianze, la rosa dei presunti colpevoli si riduce a un solo nome: Ezio Rossi, detto Chicco.

Viene prima detto che avrebbe ammazzato Claudia perché gli avrebbe fatto perdere una fonte sicura di reddito (utile alla sua latitanza) volendo uscire dal mondo della droga e della prostituzione; si parlerà poi di gelosia o di un grosso debito che la ragazza non avrebbe restituito. Alla fine, si scopre che il movente sarebbe che la Vaccaro avrebbe ottenuto delle dosi di eroina senza pagare, usando il suo nome come garanzia.

Testimoni hanno visto Rossi incontrare la vittima quella sera, intorno alle 20,30 a “La Tartaruga” una cremeria in via Chiesa della Salute. Avrebbero parlato un po’ e poi, intorno alle 22, sarebbero andati via in compagnia di un loro amico, il diciannovenne Carlo Venere. I due, ovviamente, negano recisamente. Venere riferisce che era da un’altra parte mentre Rossi ammette di aver incontrato la Vaccaro ma dice che non aveva motivi di rancore verso la fanciulla e che anzi voleva scappare insieme a lei, in una fuga amorosa, in Turchia o in India. Quella sera avrebbero avuto una conversazione piacevole di circa una mezzora e poi si sarebbero divisi. Lei era tornata a casa e lui avrebbe preso un taxi per andare da una prostituta, che, per altro, confermerà tale alibi.

Il processo, in assenza di testimoni diretti, del ritrovamento dell’arma del delitto e di una ricostruzione oraria precisa, è indiziario e inizia il 7 luglio 1980. Fin dalle prime udienze si sente aria di assoluzione, quantomeno per assenza di prove. Poi, però, il 9 luglio Sergio Giglio, l’ex marito dell’assassinata, fa una rivelazione clamorosa. Racconta di aver conosciuto in un centro di disintossicazione un ragazzo di nome Fulvio Della Valle.

I due si frequentano per un po’, diventano amici e, una sera, questi gli dice la verità: "C'ero anche io quella sera, anzi guidavo io la 128 rossa con cui accompagnai Chicco, Claudia e uno dei fratelli Venere in quel campo. Ci aveva chiesto di portarli in un posto tranquillo, scesero lei e lui e si allontanarono, dopo un po' udimmo dei colpi e Chicco torno da solo.” Questa testimonianza, confermata in aula dallo stesso Della Valle e anche dalla nuova compagna di Giglio, è la svolta del processo.

Nel febbraio 1982, dopo un iter travagliatissimo, Rossi viene condannato a 30 anni mentre Venere, condannato per aver messo a disposizione l’auto e a conoscenza delle intenzioni dell’altro, prende 11 anni. La sentenza stabilirà che Claudia Vaccaro venne ammazzata per punire uno sgarro e che, anche se l’azione omicidiaria l’uccise “per sbaglio” questo non ne attenuò in alcun modo la gravità.

Come nulla nella sua breve e disperata vita ha attenuato le sue sofferenze.

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