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Ombre su Torino

Delitto al Cinema Alexandra: amore, sangue e bigottismo nell’Italia del ’67

Una tragedia consumata tra le poltrone rosse di via Sacchi e i dettami di una famiglia patriarcale. Il racconto agghiacciante di Michele e Carmela, tra repressione sessuale, coltelli e verginità da difendere

Orrore al Cinema Alexandra
3 dicembre 1967 ore 18,30.
Al Cinema Alexandra di via Sacchi 18 si è appena conclusa la proiezione pomeridiana de L’artiglio Blu. Il film narra di un serial killer dalla mano metallica fornita di quattro lame affilate e si dipana attraverso scene fatte di omicidi, scheletri che prendono vita e serpenti che mordono donne discinte.
Nonostante la pellicola non sia un granché, quella domenica la sala è piena. È per questo che due coppie di fidanzati non riescono a trovare quattro posti vicini e devono accontentarsi, in platea, di stare l’una davanti all’altra in file diverse.
Quando si riaccendono le luci, Carmela Calitri e Michele Magnatta, entrambi poco più che ventenni, si girano per parlare con gli amici ma non li trovano. Il giovane li va a cercare e, arrivato nel bagno, vede un rivolo di sangue venire da sotto la porta di quello degli uomini.
Lo spettacolo è raccapricciante: appoggiata al muro c’è la cugina di Carmela (che porta lo stesso nome e cognome) e addosso ha il corpo del fidanzato, Michele Ruscillo. Lei è stata attinta da almeno dieci fendenti mentre lui ha due profondissimi tagli nella zona del cuore. L’arma del delitto, un coltello a serramanico, giace per terra e la dinamica sembra subito chiara: il ragazzo ha colpito furiosamente Carmela che è morta e poi ha tentato, senza riuscirci, di uccidersi.
Ai dottori che lo caricano in ambulanza Ruscillo dice una sola, enigmatica frase: “La madre è andata via, io sono rimasto fuori”.
La ricostruzione dell’accaduto inizia da quelle parole ed è uno spaccato perfetto dell’Italia di quegli anni.
La famiglia Calitri arriva da Bovino, vicino Foggia, nel marzo di quell’anno. Il padre trova lavoro in un’azienda edile e, dopo qualche mese, lo raggiungono la moglie e la figlia Carmela che ha appena compiuto 20 anni. Poco dopo, dallo stesso paese, arriva anche Michele, 23 anni, che viene assunto nella ditta del suocero e va ad abitare a casa loro: i due si sposeranno entro Natale.
Diventa a questo punto necessario specificare che, anche per quei tempi, i Calitri sono molto all’antica. Il giorno dell’omicidio, ad esempio, quando la cugina arriva all’abitazione per recuperare la coppia e andare verso il cinema deve lasciare di sotto il suo compagno. I due non sono ufficialmente fidanzati, non possono presentarsi davanti ad altri parenti insieme.
A Michele e Carmela non è permesso uscire da soli e, ovviamente, la fanciulla sarebbe dovuta arrivare vergine al matrimonio. <<Carmela la rispetto, sarà la mia sposa senza vergogna>> riferisce lui al padre.
<<Io capisco le tue preoccupazioni, papà>> gli dice lei << Michele è esuberante, ha il sangue caldo e faccio fatica a tenerlo a bada, ma devi stare tranquillo: io voglio andare all'altare con l'abito bianco>>.
Questa ultima frase, però, non piace molto alla madre della ragazza che, dovendosi recare al paese per la raccolta delle olive, chiede a Michele di andare ad abitare altrove fino a che non fosse tornata. Ecco la spiegazione alle farneticazioni del giovane pochi istanti dopo il delitto.
Rimasto in ospedale in pericolo di vita per due settimane, Ruscillo viene successivamente arrestato ma non collabora con gli inquirenti. La verità la racconta al professor De Caro, incaricato dal tribunale di valutarne la capacità di intendere e di volere. <<Carmela non si è mai concessa interamente, ma consentiva ad appagare i miei desideri. Anche quel pomeriggio, al cinema, mentre guardavamo lo spettacolo, era stata comprensiva. Poi eravamo andati al gabinetto per lavarci le mani e lei sollevò la gonna per aggiustarsi le calze. Le fui addosso. Si difendeva debolmente, ma, ad un tratto, bruscamente, mi respinse: "Ora basta, riprenderemo più tardi". È allora che persi la testa>>.
Giudicato sano di mente ma, al momento del crimine, in “una situazione psico-biologica tale da alterare sensibilmente le sue facoltà” Michele Ruscillo è riconosciuto colpevole di omicidio con l’aggravante di aver ucciso “nell’atto di compiere atti immorali sulla ragazza che lo respingeva”. Per tale reato, oltre al “comportamento vizioso” alle “illecite effusioni in luogo pubblico” e al porto abusivo di coltello, viene condannato definitivamente, con le attenuanti generiche, a un totale di 20 anni, nel 1969.
Un crimine orrendo, senza giustificazioni ed esploso all’interno di legami familiari retrogradi e di un bigottismo che anche i giornali dell’epoca, in qualche modo, trovavano consuetudine. Avvenuto, paradossalmente, appena pochi mesi prima del ’68 e della sua stagione, tra le altre cose, di grande liberazione dal punto di vista sessuale.
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