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02 Aprile 2025 - 22:37
Giosuè Carducci (1835-1907)
Centonovant’anni fa, il 27 luglio 1835, a Valdicastello, una frazione di Pietrasanta, in Versilia, nasceva Giosuè Carducci, futuro poeta ufficiale dell’Italia umbertina, premio Nobel per la letteratura nel 1906. Spirito repubblicano e giacobino, si accosterà alla monarchia sabauda e alle posizioni nazionalistiche dell’epoca. La sua vicenda politica bene rispecchia l’involuzione della borghesia italiana dopo il conseguimento dell’unità nazionale allorché, abbandonati gli ideali del Risorgimento, si schierò a difesa dell’ordine costituito contro ogni tentativo di apertura politica e sociale.
Trasferitosi a Bologna nel 1860, Giosuè Carducci amò il Piemonte, fra le cui montagne amava trascorrere periodi di riposo. Ai trovatori medievali e alla corte dei marchesi di Monferrato dedicò pagine illuminate. Nel 1890 compose «Piemonte» («Su le dentate scintillanti vette / salta il camoscio, tuona la valanga...»), una lirica fra le più celebri, poi inserita nella raccolta «Rime e ritmi». Sono versi dal piglio risoluto che evocano la «vecchia Aosta» e le sue mura romane; Ivrea, «la bella» che si specchia nella «cerulea Dora»; Biella, distesa «tra ‘l monte e il verdeggiar de’ piani»; Cuneo, «paziente e possente»; Mondovì, «ridente»; la «regal Torino, incoronata di vittoria», e, infine, Asti, «repubblicana».
L'altopiano di Ceresole Reale in una cart olina d'altri tempi. La strofa riprodotta è tratta da «Canto di primavera» che appartiene alla raccolta «Juvenilia» (1880)
Il Grand Hotel di Ceresole dove Carducci soggiornò nel 1890
Nel luglio 1890 Carducci soggiornò a Ceresole Reale, prendendo alloggio nel rinomatissimo Grand Hotel, allora frequentato da famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia di Torino. Si legge in una guida turistica edita a Torinonel 1929: «Il soggiorno di Ceresole è indicatissimo per quanti, stanchi della vita cittadina, chiedono all’alta montagna una sorgente di forze nuove e fresche per il loro organismo». E ancora: «Tutti poi, senza essere artisti o poeti di professione, vi trovano nella frescura deliziosa, nel gioco di luci e di ombre, che varia all’infinito in una sola giornata, nello spettacolo fantastico di nuvole giganti, di albe raccolte, di tramonti d’oro, quella colorazione ideale del pensiero che fa veder loro ogni cosa attraverso il prisma di una luce, di una idealità e di una freschezza prima ignorate».
A Ceresole, Carducci trovò l’ispirazione per scrivere «Piemonte». La critica ha giudicato assai severamente l’ode, la quale raccoglierebbe – come affermava il critico Walter Binni (1913–1997) – «tutti i peggiori moduli» dell’eloquenza carducciana. «È troppo facile» – replicava il fiorentino Luigi Baldacci (1930–2002) – «liquidare quest’ode facendo leva su alcuni punti ideologici che segnano l’estrema involuzione della mente politica del Carducci: la riconciliazione, sotto il sigillo monarchico, di tutte le forze nazionali, Carlo Alberto accolto sotto le grandi ali del perdono di Dio insieme con coloro che egli aveva perseguitati, il dolore che agguaglia le regge e le capanne».
Interessante, a tale proposito, è l’analisi del torinese Enrico Thovez (1869–1925), autore di un libro un tempo famoso e discusso: «Il pastore, il gregge e la zampogna» (Napoli, 1910). Partendo da un’ipotesi sperimentale per cogliere la «ratio scribendi» del poeta, Thovez immagina che una scolaresca chieda un’ode di occasione al proprio professore. Questi – scrive il critico – «si è posto innanzi tutto in mezzo all’ambiente fisico e lo ha osservato con diligenza. Che si scorge in fondo al piano? Montagne. E che discende dalle montagne? Fiumi. E che si vede lungo di essi? Borghi, castella, città. E quali città e castella? Aosta, Ivrea, Biella, Cuneo, Mondovì, Asti, Superga». A ogni luogo, con intenti didattici, l’insegnante attribuisce gli aggettivi più appropriati: vecchia, ridente, regale, repubblicana, ecc.
Poi – continua Thovez – il professore «dall’ambiente fisico è trascorso all’ambiente storico. Che ci ricorda Aosta? La dominazione romana. E Ivrea? Arduino. E il Monferrato? Gli Alerami. E Asti? La repubblica e Alfieri. Tratteggiamo dunque un profilo di quel grande che grida “Italia! Italia!” ai dissueti orecchi». Quindi, per associazione d’idee, perché non richiamare la canzone «Italia mia» di Francesco Petrarca e il sesto canto del Purgatorio di Dante Alighieri: «Ahi! serva Italia...».
«E poiché Alfieri lanciava il suo appello ai vivi e ai morti», lo studente ginnasiale del secondo Ottocento corre subito col pensiero al «Si scopron le tombe, si levano i morti...». Ed ecco evocata plasticamente la schiera dei martiri redivivi. Ed ecco la prima impresa nazionale con Carlo Alberto, l’«italo Amleto». Ora – dicono i martiri del Risorgimento – «anch’egli è morto, come noi morimmo, Dio, per l’Italia. Rendine la patria».
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