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Lo Stiletto di Clio
12 Marzo 2025 - 22:43
All'inizio del ventesimo secolo, il rio Freidano scorreva placidamente nell'attuale piazza Vittorio Veneto (sullo sfondo si scorge il cosiddetto Mulino vecchio)
È la Settimo delle reminiscenze, forse un po’ distorte dal tempo e dalla nostalgia. Ma i cittadini di vecchia data la ricordano così, fra malinconia e rimpianto. E se non si tratta di categorie storiche, pazienza! L’identità di un luogo si alimenta anche di immagini simboliche in relazione a un tempo indeterminato. Perché la memoria non è un elemento naturale, ma una costruzione culturale.
Prati e salici a Settimo Torinese fra le due guerre mondiali; fra le case si scorge la biancheria sciorinata dai lavandai
Nei ricordi dei settimesi agés prevalgono le immagini di prati e campi che si stendevano a perdita d’occhio. Fra viottoli e carrarecce, salici solitari, rogge dalle acque trasparenti e pescose, cascine piccole e grandi, siepi di bosso e macchie d’alberi che si accendevano, in primavera, d’un verde brillante, il paesaggio era lieve, delimitato a sud dalla collina torinese e, a nord, più in lontananza, dalla linea azzurrognola delle Alpi.
Fra le due guerre mondiali, nonostante le numerose industrie e le vie di grande comunicazione (la strada statale, la ferrovia per Milano, l’autostrada inaugurata da Benito Mussolini nel 1932, la linea ferroviaria del Canavese, ecc.), il territorio conservava evidenti caratteri campagnoli. Fra il borgo antico e la collina scorreva il Po, il cui quieto sciabordare si udiva, di notte, nella parte bassa del paese. Un traghetto a fune, ricostruito nel 1922 a spese del Comune, permetteva di raggiungere agevolmente i paesi sulla sponda destra del grande corso d’acqua. Quando il caldo dell’estate si faceva torrido, il Po e i vicini torrenti Stura, Malone e Orco costituivano una tentazione irresistibile per i ragazzi del luogo.
Il paesaggio era parte dell’immaginazione. Distesi sulle rive del Po, chiudendo gli occhi, i ragazzi fingevano di essere gagliardi principi della Malesia o filibustieri della Tortuga oppure indomiti cavalieri dell’ideale, animati dal sacro fuoco della libertà. Sembra quasi di leggere Cesare Pavese: «Credevo che avrei mangiato il mondo. Tutti ai piedi e io vestito da satrapo persiano coi ventagli di pavone. Oppure a cavallo, come Napoleone, a figgere lo sguardo d’aquila sui tigrotti di Mompracem». Ogni cosa diveniva fantasia e sogno.
La realtà di paese era segnata da ritmi apparentemente immutabili: la scuola, la Pasquetta nei prati, le vacanze estive e natalizie, il mercato della domenica, le fiere, le esercitazioni militaresche del sabato, le adunate in piazza con plotoni di camicie nere e di bambini in divisa, la festa patronale di fine agosto e le serate sonnacchiose d’inverno.
Alle aree in espansione si contrapponeva il borgo antico, delimitato dal ciglio del terrazzo naturale – ai cui piedi fluiva placidamente, da secoli, il rio Freidano – e raccolto attorno alla torre del castello e ai campanili delle chiese di San Pietro in Vincoli e Santa Croce. Tramite i cascinali (la Prevostura, la Giardinera, San Rocco e altri minori), la campagna penetrava all’interno del borgo. Poco più a sud si estendeva la zona dei lavandai, quella che, vista dalla collina di Superga nei giorni tersi, pareva imbiancata di neve, tanta era la biancheria stesa al sole in lunghe file parallele.
Una certa omogeneità sociale e culturale favoriva i rapporti degli immigrati, per lo più veneti, col vicinato e, in definitiva, con l’intera comunità. Torino era lontana, separata da una campagna che si estendeva per chilometri, sino ai sobborghi operai (le «barrie¬re»). In Settimo, i nuovi venuti ritrovavano ambienti e situazioni familiari: il mercato, i balli sull'aia, le osterie (ve n’erano moltissime, tutte dai nomi suggestivi), un intero mondo che continuava a mantenere importanti riferimenti nella quotidianità agreste.
È la Settimo delle reminiscenze, forse un po’ distorte dal tempo e dalla nostalgia.
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