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Novant’anni fa il confino di Cesare Pavese a Brancaleone: solitudine, scrittura e disperazione

Nel 1935 lo scrittore piemontese viene mandato al confino in un piccolo paese della Calabria. Tra paesaggi aspri, amicizie sincere e notti insonni, matura una delle stagioni più dolorose e intense della sua vita letteraria

Novant’anni fa il confino di Cesare Pavese a Brancaleone: solitudine, scrittura e disperazione

Cesare Pavese

Era un’afosa giornata di novant’anni fa, il 4 agosto 1935, quando Cesare Pavese scese dal treno, in manette, nella stazioncina di uno sperduto paese all’estremità meridionale della Calabria. All’epoca, Brancaleone contava poco meno di quattromila abitanti, mentre ora raggiunge a malapena i 3.200. Lo scrittore piemontese vi fu confinato dopo alcuni mesi di carcere a Torino e a Roma, per attività antifascista: all’epoca non aveva ancora compiuto i ventisette anni di età. A Brancaleone Calabro, il paese davanti al mare, Pavese trascorse un intero anno, cercando invano di combattere il dramma dell’isolamento attraverso l’attività letteraria. «Sempre, come il primo giorno, mi sveglio al mattino con la puntura della solitudine», scrisse dal confino.

L’11 settembre 1935 scriveva Pavese al professor Augusto Monti (1881-1996), di cui era stato allievo al liceo-ginnasio «Massimo d’Azeglio» di Torino, rimanendo successivamente in confidenza con lui, nonostante la differenza di età: «Qui i paesani mi hanno accolto molto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. […] Leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio insomma venir notte, ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà: nel mio caso per tre anni».

La stanzetta dove visse Pavese, a Brancaleone, fra il 1935 e il 1936

La stanzetta dove visse Pavese, a Brancaleone, fra il 1935 e il 1936

Cesare Pavese (il secondo da sinistra) a Brancaleone Calabro

Cesare Pavese (il secondo da sinistra) a Brancaleone Calabro

Il periodico illustrato «Storicittà», il quale si autodefinisce «rivista di altri tempi» ed esce dal 1992 con cadenza mensile, a Lamezia Terme (Catanzaro), dedicò alcuni interessanti articoli all’angosciante esperienza calabra dello scrittore piemontese. Il professor Gaudio Incorpora, originario di Brancaleone, deceduto nel 2013, ebbe modo di soffermarsi in modo particolare sull’amicizia di Pavese con Oreste Politi, il Giannino del romanzo breve «Il carcere», scritto fra il novembre 1938 e l’aprile 1939, dopo il rientro a Torino. «Non sapevo quale morso da affamato, da squalo, da cancro, abbia la lontananza», si confidò Pavese. Afferma Incorpora: «I giorni e i dolori, forse, se è vero che il suo dramma maturò in una povera stanzetta a pianterreno, che nessuno ricorda, tra la strada e la ferrovia, nel paese di Brancaleone. In quella piccola stanza, “il sorvegliato Pavese Cesare” passò le notti insonni e disperate».

E ancora: «In quella stanza Pavese concepì alcune delle più belle poesie di “Lavorare stanca”, “Lo steddazzu”, “Mito”, “Semplicità”, alcuni racconti della raccolta “Notte di festa”, prese gli appunti per “Il carcere”, il suo diario postumo del confino, una “storia di paese e di sesso”, com’egli amò definirlo. Sentì la rottura interiore del paesaggio, scoprì se stesso, la nostalgia di Torino, il disprezzo per le donne, misurò il destino e, soprattutto, intuì il dramma della sua vita: “Ho comperato una bella corda, l’ho adattata a nodo scorsoio e tutte le mattine l’insapono per tenerla pronta”».

Oreste Politi era il solo che «sapesse popolare di cose non dette la solitudine» di Cesare Pavese. Con Politi lo scrittore si confidava liberamente perché «non era fascista». Si trattava di un vero amico che «sapeva tacere». Nel 1936, dopo una domanda di grazia, Pavese poté tornare in Piemonte. All’insuccesso di «Lavorare stanca» si aggiunse la cocente delusione di scoprire che la donna amata aveva contratto matrimonio con un altro uomo. Chiamato alle armi, tre anni più tardi anche Oreste Politi venne a Torino. Ogni domenica sera, i due s’incontravano sotto i portici di corso Vittorio Emanuele. Pavese condusse l’amico a visitare i musei, gli fece conoscere la sorella Maria e le nipoti, gli mostrò la propria collezione di pipe.

«Caro Politi – scrisse Pavese all’amico, tornato in Calabria – come vanno le cose a Brancaleone? Io continuo a dover rimandare la gita che da dieci anni voglio fare laggiù. Sembra quasi che, come nel ‘36 ero confinato là, adesso sia confinato qui». E nel novembre 1949: «Caro Politi, mi piacciono le tue buone notizie. Io lavoro come un cane e ho spesso mal di testa, come succede alle lavandaie che hanno male alle ginocchia».

Nell’estate dell’anno seguente, lo scrittore ricevette il prestigioso Premio Strega. Ma la sera del 27 agosto si tolse la vita in una camera dell’albergo «Roma», a Torino, nei pressi di Porta Nuova. «Quando seppi della sua fine, piansi come se fosse morto un fratello», confessò un giorno Oreste Politi.

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