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Costume e Società
15 Marzo 2025 - 19:13
Willie Peyote, foto profilo Instagram
C’è chi arriva a Sanremo per vincere e chi ci torna per dire qualcosa. Willie Peyote, originario di Leini, appartiene alla seconda categoria. Non gli interessa la gara, non ha l’ansia da prestazione, non si preoccupa di piacere a tutti i costi. Ha un solo obiettivo: lanciare un messaggio. E quest’anno lo ha fatto con Grazie ma no grazie, un brano che è già diventato un tormentone, con un titolo che si incolla alla testa e un gesto che su TikTok ha preso vita propria. Ma se per molti è solo una frase ad effetto, per lui è un manifesto. Perché le parole, come sempre, hanno un peso. E chi lo segue da tempo lo sa: Willie Peyote non le usa mai a caso.
Nel 2021 aveva già calcato il palco dell’Ariston con Mai dire mai (La locura), ma era stato un Sanremo dimezzato. Il pubblico non c’era, gli artisti erano blindati in hotel, l’atmosfera era surreale. Questa volta, invece, si è goduto tutto: il casino, la folla, l’energia che solo un evento come questo può trasmettere. “L’altra volta non mi ero reso conto di quanto fosse grande Sanremo. Non avevo percepito il trasporto della gente, l’entusiasmo che si respira per strada. Quest’anno è stato tutto diverso”, ha raccontato a Fanpage. Ma il motivo per cui ha deciso di tornare non è solo questo. A Sanremo 2025, come ha sottolineato in un’intervista a Vanity Fair, di canzoni politiche ce n’è una sola. La sua. L’eccezione che conferma la regola.
Grazie ma no grazie non è un pezzo leggero, non è un tormentone estivo travestito da brano sanremese. È un pugno nello stomaco, una critica diretta a chi si sente minacciato dai cambiamenti, a chi si aggrappa a un’idea di mondo che non esiste più, a chi continua a gridare che “non si può più dire niente”. “Mi stupisce che questo conservatorismo si stia diffondendo così tanto tra i giovani. La paura di perdere il privilegio è forte e la reazione è chiudersi a riccio, come se il mondo dovesse restare fermo”. Per lui, però, la direzione è un’altra: non i muri, ma i mulini a vento.
Non è la prima volta che Willie Peyote usa la musica per raccontare il presente. Lo ha sempre fatto, senza preoccuparsi delle conseguenze. E non è un caso se, parlando di sé, dice di essere parte del problema. “Sono un maschio, bianco, etero, sulla quarantina. Sono io stesso il privilegio”. Non cerca di smarcarsi, non si mette sul piedistallo. Sa di essere figlio di un sistema e ammette che, come tutti, deve fare i conti con i propri limiti. La storia si ripete, dice citando M - Il figlio del secolo, e oggi l’Italia è appesantita da una politica che non dialoga, che si nutre di scontri ideologici e che alimenta le paure. I giovani si sentono traditi, schiacciati da un futuro incerto, e la risposta più facile è chiudersi, difendere ciò che si conosce, rifiutare il cambiamento. Ma lui ha scelto di stare dall’altra parte.
Non è una posizione comoda, soprattutto in un’epoca in cui esporsi conviene sempre meno. “Non credo che agli altri non interessi, semplicemente oggi fare musica sociale non conviene. Io vengo da una generazione in cui dire la propria era un valore. Adesso molti artisti fanno un altro tipo di saldo: tra costi e benefici, conviene stare zitti”. Lui, invece, ha scelto di parlare. E il pubblico lo ha capito. Grazie ma no grazie ha fatto il botto su Spotify, passando da 360mila a quasi 3 milioni di ascolti, e il gesto della mano è diventato un simbolo, ripreso e riproposto sui social in ogni forma possibile. Eppure, lui stesso ammette di non aver previsto un’esplosione del genere. “Io TikTok lo conosco poco per motivi anagrafici, ma evidentemente certe dinamiche sono più forti di quanto si immagini”.
Ma i numeri, per quanto gratificanti, non sono la cosa più importante. La vera soddisfazione è il disco. Sulla riva del fiume è un album che per lui chiude un cerchio, un ritorno alle origini con la maturità di chi ha fatto un lungo percorso. “È un pezzo di me, un disco che volevo far conoscere e che grazie a Sanremo sta arrivando a un pubblico più giovane. Ma soprattutto è un disco da suonare dal vivo”. Perché se c’è una cosa che Willie Peyote sa fare è stare sul palco. Non gli interessano i grandi eventi, gli stadi strapieni, il gigantismo che negli ultimi anni ha preso il sopravvento nella musica dal vivo. Lui è un artista da club, da locali in cui il contatto con il pubblico è diretto, in cui la musica si suona e non si replica.
Nel cast di Sanremo si è trovato in mezzo a quelli che Simone Cristicchi ha definito la “riserva indiana” del Festival: outsider, artisti fuori dal circuito delle grandi hit radiofoniche, cantautori e musicisti che portano avanti il loro percorso senza inseguire le mode. “Va bene così, sono orgoglioso di stare tra gente così brava”, ha detto. Anche se lui, più che un cantautore, si sente ancora un rapper. E il rap, per lui, significa contaminazione. Nelle sue canzoni c’è il rap old school, c’è la black music, c’è il cantautorato, c’è la stand-up comedy, c’è tutto quello che lo ha formato. Non ha mai avuto la pretesa di decidere come essere percepito, né si è mai preoccupato troppo delle etichette.
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Ora che il Festival è finito, i numeri parlano chiaro. Il pubblico ha risposto, le classifiche lo stanno premiando, il suo nome gira ovunque. Ma per Willie Peyote, come sempre, la musica non è una gara. Non è mai stato uno di quelli che cercano il podio, non ha mai scritto canzoni per salire in classifica. Sanremo lo ha vissuto come una giostra, senza l’ansia da competizione, con la leggerezza di chi sa di non dover dimostrare niente a nessuno. “Io non faccio musica per vincere”, ha detto più volte.
E forse è proprio per questo che, alla fine, vince lo stesso.
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