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Ombre su Torino

Ventidue coltellate per duecentomila lire

Due ragazzini del quartiere, uno dei quali minorenne, massacrano il panettiere delle Vallette che li conosceva per nome. Una prova di coraggio, una vendetta, una mappa dell’orrore tutta racchiusa in poche centinaia di metri

Morire. Quasi un dovere civico.

Apnea.
Per un paio d’ore sono stati in silenzio, guardandosi in faccia, contando ogni singolo respiro. Divorati da un cocktail fatale di ansia ed eccitazione, hanno atteso che il buio rendesse il quartiere un deserto di cemento bevendo birra e fumando qualche sigaretta su una panchina. Poi è arrivato il momento. Il gelo di una sera di fine febbraio fa scricchiolare ogni loro passo: non sono fantasmi, sono due ragazzini. Camminano pochi minuti e arrivano in via delle Verbene 15/u.

Via delle Verbene 15

Una lama di luce trapela da sotto una serranda abbassata a metà ma la porta della panetteria è aperta. Il proprietario sta chiudendo la cassa e ha messo dei sacchi vicino all’ingresso perché da quelle parti, alle Vallette, abitano tanti vecchietti che col freddo preferiscono farsi portare rosette, focacce e grissini direttamente a casa.

 

Lo fa di buon grado, senza chiedere una lira, con la stessa generosità con la quale fa credito a chiunque: “Vendo pane non vestiti. Se qualcuno non può pagare neanche il pane non gli posso sbattere la porta in faccia”. È benvoluto in zona perché il suo negozio è uno degli ultimi a chiudere la sera, un avamposto illuminato in quella che i suoi stessi abitanti, dopo una certa ora, definiscono terra di nessuno.

 

Siamo nel 1994 e le Vallette, allora come oggi, non riescono a staccarsi da dosso la nomea più o meno pregiudiziale di quartiere difficile. Dormitorio per gli operai immigrati dal sud negli anni ’70, nei decenni successivi diventa il parco giochi prediletto di rapinatori e piccoli criminali, soprattutto dopo che l’esplodere del consumo di eroina ha tramutato tanti tossicodipendenti in banditi armati di coltello in cerca di soldi per una dose.

 

Il panettiere ne conosce tanti, alcuni addirittura per nome e cognome. Hanno provato a portargli via l’incasso anche a lui, gli hanno puntato la siringa contro tre o quattro volte ma con la maggior parte di quegli sbandati ha un rapporto sereno: qualche centinaio di lire e una pagnotta e se ne vanno. Conosce tutti nel quartiere. Anche quei due ragazzini.

Tina e Innocenzo

26 febbraio 1994, ore 20.30.

Annunziata “Tina” Cesareo è nella sua abitazione di viale dei Mughetti 11/a e sta attendendo per cena il suo compagno, Innocenzo Celiberti. Abitano insieme da qualche anno dopo che entrambi sono usciti dai loro rispettivi fallimentari matrimoni. Economicamente se la cavano appena tra cambiali e qualche prestito ma non importa. “Quando mi specchio non riesco proprio a vedermi come una che può far girare la testa agli uomini” racconta Tina “ma lui mi ama ed è tutto quello che mi serve”.

 

L’uomo ha una panetteria a qualche centinaio di metri di distanza, in via delle Verbene 15/u, e le ha detto che quella sera tarderà un pochino rispetto al solito. Chiuderà il negozio alle 19,30, farà il suo solito giretto dei suoi anziani clienti a domicilio, si recherà al supermercato per comprare del detersivo e poi dovrà cercare una cabina telefonica per chiamare suo figlio perché l’apparecchio che hanno a casa si è rotto.

 

Arrivano le 21 e Innocenzo non è ancora tornato. La Cesareo si preoccupa e chiede a un suo vicino di casa, Roberto Nicolò, di andare a dare un’occhiata in negozio per vedere se il compagno fosse ancora lì. Questi raggiunge la panetteria in pochi minuti trovandosi davanti la serranda laterale totalmente abbassata e quella dell’ingresso a circa 30 cm da terra. La bottega al suo interno è molto piccola, c’è poco spazio tra la soglia e il bancone. E’ impossibile non vederlo. Innocenzo Celiberti, 41  anni, giace a terra in un lago di sangue.

 

Qualcuno gli spaccato una bottiglia in testa e poi gli ha frugato nelle tasche portandosi via l’incasso della giornata e le chiavi di casa. Ma, soprattutto, prima di andare via ha affondato la lama di un coltello almeno 20 volte nel corpo del povero commerciante. E’ stato colpito alla schiena, al ventre, al torace, alla nuca, alla testa: un massacro. Il propagarsi della notizia ha un effetto dirompente su quella parte di Torino dimenticata dalle autorità. Fin dal giorno dopo le Vallette si bloccano. Gli esercenti abbassano le serrande, si creano decine di capannelli e cortei spontanei partono da ogni angolo del quartiere convergendo verso il luogo del delitto. Tra i partecipanti praticamente tutti hanno da raccontare aneddoti di violenza subita, di un territorio abbandonato ai delinquenti, di criminali armati fuori controllo pronti a uccidere per mille lire. Sembrano tutti d’accordo: sarà stato uno dei tanti tossici che gira qui intorno.

 

La verità, però, se possibile è ancora peggiore. I colpevoli vengono presi nel giro di due settimane. Uno ha 17 anni e non se ne saprà mai il nome mentre l’altro ne ha 21 e si chiama Antonino Zafonte. Non sono degli eroinomani ma due giovani del posto, uno studente e un disoccupato ex parà e judoka. Il minore confessa che quella sera, quando li ha visti entrare, Celiberti gli ha sorriso perché si conoscevano benissimo. La sua espressione è cambiata alla vista del coltello ma, proprio perché sapeva chi fossero, non ha opposto resistenza consegnandogli circa 200 mila lire d’incasso.

 

Nelle parole dell’adolescente tutto lo stupore per quanto accaduto successivamente: “Potevamo andare via ma Zafonte ha colpito Celiberti prima con un pugno e poi gli spaccato una bottiglia in testa. Quando è finito a terra gli è montato sopra e lo ha colpito con tutte quelle coltellate”.

Zafonte

Lo ha seguito come un automa perché l’altro gli aveva chiesto una prova di coraggio, se lo era portato dietro per vedere se non avrebbe avuto paura, sporcandogli le mani come complice. Si è poi rifugiato in casa, ha partecipato al rosario di suffragio e al funerale, si è stretto a Tina. Ha negato fino a che non gli hanno messo le manette ai polsi, l’ultima dimostrazione di insensato sangue freddo. 

 

Il movente viene delineato indirettamente da Zafonte. Racconta che era stato avvicinato da un potente uomo di malavita a bordo di una Mercedes che gli avrebbe dato 30 milioni per minacciare il panettiere al fine di ottenere il pizzo sulla sua attività. Non lo doveva uccidere ma doveva solo dargli una lezione. Era stato scelto Celiberti perché era uno che non teneva la bocca chiusa, avendo fatto arrestare, con la sua testimonianza, l’autore di una rapina avvenuta nella farmacia adiacente alla panetteria, circa un mese prima dell’omicidio. Si scopre che a fare quel colpo è stato lo zio di Antonino, Ercole Occhipinti, abitante nello stesso palazzo del nipote, in via delle Pervinche. Tracciare le linee sulla mappa è impressionante. Le case di vittima e carnefici, la panetteria e la farmacia sono tutte a pochissime centinaia di metri una dall’altra. Una tragedia che più locale non si può.

A processo il PM spinge per la versione della vendetta per l’arresto dello zio e Zafonte viene condannato definitivamente nel 1996 a 22 anni. Non imputabile il minorenne, non era in grado di intendere di volere: viene mandato 3 anni in comunità di recupero e reinserimento.

 

Zafonte si fa circa 20 anni dentro per poi assurgere all’onore delle cronache nuovamente nel 2016. Tra il 2014 e il 2015 è responsabile, insieme a dei complici, di una serie di rapine armato di pistole finte e armi bianche, tra cui un’ascia: bottino totale circa 10 mila euro. Colpiscono principalmente sale slot e tabaccherie ma il colpo che li fa andare dentro è ai danni di una farmacia.

Ovviamente.

 

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