E' un giorno come tanti nella capitale, un giorno come tanti nell'Italia di quel periodo, soprattutto nelle grandi città.
In
via Medaglie D'oro, un gruppetto di militanti di sinistra sta volantinando a seguito di un attentato dell'estrema destra avvenuto il giorno prima. La vittima, attinta da tre colpi di pistola sparati da un'auto in corsa, è
Elena Pacinelli, una ragazza di appena 19 anni che morirà qualche mese dopo per le ferite riportate.
La zona, secondo la logica "a macchia di leopardo" dell'epoca è di forte presenza neofascista. Arrivati nei pressi della locale sezione dell'MSI della Balduina, presidiata da un blindato della polizia, gli antifascisti vengono "accolti" da un fitto lancio di bottiglie e sassi che li costringono a ritirarsi. In mano hanno solo i volantini.
Il blindato della polizia inizia a scendere lentamente per Via Medaglie D'oro, nascondendo, più o meno volutamente, due neofascisti romani, Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti. Improvvisamente, i due attraversano la strada e puntano le loro pistole verso i "compagni". Walter Rossi, 20 anni da compiere, viene colpito da una pallottola alla nuca e muore sul colpo. Ai militanti presenti insieme a lui la polizia spiega di non poter far nulla poiché "non hanno a disposizione neanche la radio".
Il giorno dopo l'Italia intera è attraversata da una serie di manifestazioni dell'estrema sinistra da nord a sud del paese. E' normale per i sabati di quegli anni, ma questa volta è diverso: è troppa la rabbia per quel ragazzo caduto per mano fascista.
A Torino più di 3000 persone partono da Piazza Solferino. Obiettivo numero 1 la sede dell'MSI di Corso Francia. Iniziano gli scontri con le forze dell'ordine che difendono l'edificio, bulloni, porfido e molotov da una parte, lacrimogeni dall'altra. L'attacco fallisce, i manifestanti vengono respinti, il corteo si dirige verso Palazzo Nuovo.
Al 46 di Via Po, dove adesso si trova il Xò, ai tempi si trova ugualmente un bar/discoteca chiamato l'Angelo Azzurro. Nonostante i proprietari abbiano la tessera del PCI in tasca, il locale viene considerato un covo di fascisti. Nell'insensata follia del furore ideologico di quegli anni è un'occasione troppo ghiotta: il truculento slogan "Le sedi fasciste si chiudono col fuoco, con i fascisti dentro, se no è troppo poco" sta per diventare realtà.
Sono le 11.40, al suo interno sono presenti la barista, il titolare e sua moglie. Oltre a loro solo due clienti, Diego Menardi e Roberto Crescenzio. Irrompono in 10/15 a volto coperto iniziando a fracassare tutto, Menardi viene malmenato e trascinato fuori dal club, i proprietari scappano dal retro. Forse gli autori non vogliono uccidere nessuno. Probabilmente non si sono accorti di Crescenzio che si è rifugiato nel bagno. L'Angelo Azzurro sembra deserto e inizia un fitto lancio di molotov che in un attimo riempie di fiamme il bar. Dalla porta del bagno ormai invasa dal fumo esce Crescenzio. Inciampa, cade, si rialza ed esce avvolto dal fuoco.
Nell'orrore di quella mattina, il finale è senza dubbio il momento maggiormente surreale. I soccorritori, infatti, troveranno il ragazzo, 22 anni appena, adagiato su una sedia fuori dal locale. Senza vestiti, con ustioni sul 90% del corpo, ma quasi composto, come se si potesse essere un normale cliente di un bar che ha preso fuoco.
Roberto Crescenzio non è un fascista, non è neanche un militante politico, come non lo è il suo amico Diego Menardi. E' solo un ragazzo della zona che frequenta quel posto. Muore il 3 ottobre.