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Punto rosso
11 Dicembre 2023 - 09:00
Le donne conoscono la discriminazione di genere fin da quando non la si chiamava così, quando era considerato normale che fossero cittadini ed esseri umani di serie B.
Poi lentamente ci siamo evoluti come società, è stato cancellato il delitto d’onore (anche se le donne continuano ad essere uccise in quanto tali e quindi possesso di uomo che può disporre delle sua vita fino a togliergliela), le donne possono lavorare fuori casa (anche se pagate sempre meno dei colleghi uomini e hanno carriere tarpate), possono fare qualsiasi mestiere in passato ad esclusivo appannaggio maschile (anche se le diffidenze permangono, si pensi al mestiere di pilota di aereo, ancora c’è chi afferma che non volerebbe mai se il pilota fosse una donna). E molti altri passi verso la civiltà sono stati fatti, ma rimane sempre e insormontabile uno scalino che questa nostra società non riesce a superare, eppure è il più importante: quello culturale, del linguaggio e degli atteggiamenti.
Probabilmente per questo motivo è praticamente passato inosservato un passo epocale nella direzione del superamento di quello scalino: nel 2022 la Treccani ha deciso di cancellare nel suo dizionario gli stereotipi di genere nelle definizioni e negli esempi. Han capito – loro esperti della parola – che la promozione della parità non può che passare anche dalla lingua. Non troveremo più quindi nel dizionario Treccani quelle perle popolari che incredibilmente ancora oggi si leggono e si sentono dire qua e là mascherandole magari da battute: “Chi dice donna, dice danno”, “Donna al volante pericolo costante”, “Alle donne che non fanno figli non ci andar né per piacer né per consigli”, “Da una mucca a una donna ci corre un par di corna”, e via e via.
Ma ha fatto di più la Treccani, ha incluso nel dizionario le forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile, vi troviamo quindi architetta, notaia, medica, soldata (ma anche casalingo o ricamatore) e altri nomi che finora sono stati ignorati per tradizione maschio-centrica. E negli aggettivi la forma femminile si trova prima di quella maschile, seguendo, come è giusto che sia, l’ordine alfabetico (quindi “bella”, precederà “bello”).
Potrà sembrare cosa da poco, ma la decisione di Treccani – unica nel suo genere - è un passo fondamentale, che incredibilmente arriva solo negli anni Venti del XXI secolo.
Eppure è un avanzamento importante per scrollare dalla nostra quotidianità quella muffa tossica che è la subalternità sempre e comunque della donna rispetto all’uomo.
E le colpe di questa condizione cadono anche, e non di rado purtroppo, sulle donne stesse.
La presidente del consiglio, prima donna in quel ruolo, che esige di farsi chiamare “il” presidente, offende le donne e fa fare passi indietro nel tortuoso percorso dell’eguaglianza di genere. La presidente adotta il maschile evidentemente pensando che la declinazione al femminile, pur grammaticalmente corretta, indebolirebbe il suo ruolo. E ci sta che una erede dell’uomo forte e mandibolone abbia questa idea, ma è evidente che abbiamo un problema come società.
Piccole cose?
Tutt’altro, perché se i mattoncini con i quali si costruisce il senso comune sono quelli degli stereotipi e della negazione dell’uguaglianza, non ce la faremo mai a superare le discriminazioni che le donne direttamente o indirettamente subiscono quotidianamente.
E gli scivoloni son sempre dietro l’angolo e ci cascano anche i più progressisti, perché non sono scivoloni, ma mancanza di attenzione. Nella ricerca della parità di genere, infatti, non ci si può adagiare, occorre stare sempre all’erta per scongiurare cadute che ci portano indietro di cento anni.
È infatti accaduto, leggo sul giornale che ospita questo Punto rosso, che l’elenco delle coppie che hanno ricevuto l’omaggio dell’amministrazione comunale eporediese per i loro 50 anni di matrimonio, riportasse solo il cognome del marito (sic). Probabilmente alla maggior parte delle signore andava bene così, donne d’altri tempi, tempi in cui legge o non legge il cognome di nascita, che era quello del padre, veniva sostituito da quello del marito, in maniera diciamo naturale. In questa trasmissione di cognomi da maschio-padre a maschio-marito le donne spariscono. Pur essendo le sole con la possibilità di riprodurre vita umana, non riproducono automaticamente il nome.
Ma nel terzo millennio una istituzione pubblica ha il dovere di vigilare, lo Stato e le sue diramazioni nei territori quali sono i Comuni devono essere primo e cristallino esempio di pratica della parità dei generi, valore costituzionale, anche nei più piccoli particolari, solo all’apparenza ininfluenti.
Ai festeggiamenti per i 50 anni di matrimonio
Sento già delle voci: “che sarà mai … sarà stata una svista”.
Le sviste però non accadono per caso, dipendono dagli occhi che le guardano. Se questi occhi non percepiscono che qualcosa che non va, che c’è una nota stonata vuol dire che lo scalino di prima è lontano dall’essere superato.
In uno dei punti del programma della coalizione a sostegno del Candidato Sindaco Matteo Chiantore si legge “Promuovere azioni finalizzate al cambiamento di immaginari di genere radicati a livello socioculturale, per eliminare pregiudizi e superare modelli stereotipati, promuovendo altresì a livello di P.A. un processo di revisione progressiva del linguaggio utilizzato che sappia essere inclusivo, non discriminatorio, non sessista.”.
L’intenzione dunque c’è, bene, e il lavoro è tanto, come la gaffe sui cognomi omessi delle signore che festeggiavano i 50 anni di matrimonio, dimostra.
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