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Lo Stiletto di Clio

L’innocente fascino del collezionismo

GRAN BALON, TORINO

IN FOTO Un mercatino di cose vecchie

Quanto può valere un calendario con gli «auguri del portalettere pel 1917»? E un segnalibro pubblicitario della Sora a forma di lampadina?

Quanto si spende per una mezzaluna francese da cucina che risale alla fine del diciannovesimo secolo? E per una vecchia bustina di zucchero sulla quale è raffigurato un personaggio di Walt Disney?

Quali sono le quotazioni di un cavatappi italiano del tipo a macinino oppure di una lametta da barba sul cui involucro compare la dicitura «Lama Balilla»?

IN FOTO Antico negozio di brocanteur

Da quando è scoppiata la febbre del cosiddetto collezionismo minore, anche gli oggetti più insignificanti hanno trovato un mercato. Ciò che i piemontesi, con spirito pratico e con saggezza antica, definiscono «rumenta», vale a dire ciarpame, suscita ora un interesse assolutamente inatteso. Tutto può essere collezionato, dagli orari ferroviari alle schedine del «Gratta e vinci», dai bastoni da passeggio dell’Ottocento agli skipass, dalle scatolette di fiammiferi ai colorati incarti delle arance, senza trascurare i biglietti del tram, le chiavi forgiate artigianalmente, le lattine di birra, i presepi di carta e i salvadanai.

Negli ultimi decenni, per soddisfare le richieste di collezionisti e raccoglitori, si sono moltiplicati i mercatini e le fiere delle cose vecchie. Il «Gran Balon» di Torino e i mercati di Casale Monferrato, Moncalieri, Cherasco, Chivasso e Borgo d’Ale costituiscono altrettanti appuntamenti a cui gli appassionati non possono mancare.

Ovviamente ogni cosa ha un prezzo, talvolta inabbordabile per la gente comune. La prima carta telefonica che la Sip emise nel 1976 è contesa dai collezionisti a suon di migliaia di euro. Alle stesse cifre sono quotate certe automobiline in latta anteriori alla prima guerra mondiale. La collezione completa delle figurine Liebig ha un valore che oscilla fra i 400 e i 500 mila euro. In genere, però, i prezzi sono abbastanza accessibili, altrimenti il mercato sarebbe troppo ristretto e il grande business di antiquari e robivecchi si esaurirebbe in fretta.

Un discorso a parte meritano le cartoline. Talune vedute della vecchia Settimo Torinese d’inizio Novecento costano dai cinquanta ai cento euro. Se ritraggono la stazione ferroviaria o la tranvia a vapore della Società Belga, le quotazioni lievitano. I prezzi risultano chiaramente spropositati, ma a imporli sono stati gli stessi collezionisti che, in tempi non lontani, si sono contesi gli esemplari con una tenacia degna di miglior causa.

Per vendere, se le richieste fioccano, ogni espediente è valido. Una copia dell’«Itinerario» di Francesco Scoto, edita a Venezia nel 1655, non vale più di tremila euro.

Ma se un intraprendente venditore stacca le trentaquattro incisioni e le tre doppie incisioni che la completano e le vende singolarmente, può ricavare per ognuna circa 150-180 euro, realizzando così un guadagno doppio.

E pazienza se i bibliofili arricciano il naso perché si è rovinato in modo irrimediabile un libro di pregio. Il commercio ha le sue leggi e non guarda troppo per il sottile.

Nel frattempo si tentano le prime letture sociologiche di un fenomeno che segue regole ben precise e ubbidisce a rigidi rituali, assumendo spesso risvolti un po’ maniacali. Al collezionista interessano gli oggetti separati dalla loro funzione originaria. Raccoglie bottigliette di liquore che non verranno mai stappate.

Va alla ricerca di balocchi coi quali nessun bambino giocherà. Accumula monete che non saranno mai spese. Fa incetta di tessere telefoniche e di saponette da albergo che nessuno utilizzerà. Anche in questo risiede l’innocente fascino del collezionismo.  

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