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Lo stiletto di Clio

Le fabbriche, l’immagine del novecento

I conflitti si sono spostati in ambiti dove la produzione di massa incide pochissimo: non più capitale-lavoro, ricchi-poveri, proletari-borghesi, ma giovani-adulti, occupati-disoccupati, italiani-stranieri, magrebini-romeni, lavoratori precari-pensionati.

Le fabbriche, l’immagine del novecento

Sono state le protagoniste del Novecento. Le fabbriche che sorgevano agli albori del ventesimo secolo, fra generali entusiasmi, originando nuove opportunità di crescita economica, lavoro e trasformazione urbanistica. Le fabbriche che spuntavano in gran numero, fra prati e campi di grano, nel secondo dopoguerra, annunciando una nuova fase di sviluppo e di benessere. E le fabbriche che presero a chiudere i battenti sul finire dello stesso secolo.

L’industria è riuscita a modellare le nostre città – Chivasso, Settimo Torinese, Ivrea, Rivarolo, ecc. – in base alle proprie esigenze, determinando le direttrici dell’espansione edilizia. Alle fabbriche sono collegati i grandi flussi migratori dal Veneto e dal Meridione d’Italia.

Le fabbriche hanno imposto nuovi modelli di vita, di cultura e di socializzazione. Per esemplificare, nel 1975, Settimo contava oltre 13.500 addetti all’industria, contro i poco più di 1.600 del commercio e i 220 dell’agricoltura.

Sempre in Settimo, non diversamente da altri centri del triangolo Genova-Torino-Milano, tutta la storia del Novecento è segnata dal processo d’industrializzazione. Già all’inizio del secolo, a motivo dei rivolgimenti economici in atto, la gente del posto stava perdendo quelle caratteristiche di omogeneità che l’avevano contraddistinta sotto il profilo sociale. E se un certo equilibrio ancora si manteneva, di lì a poco la comunità, unita attorno a valori sino ad allora generalmente condivisi, non sarebbe più riuscita ad assorbire, senza scosse traumatiche, gli effetti delle trasformazioni incalzanti che le fabbriche innescavano in modo irresistibile.

Le Ferriere di Settimo, poi Cravetto, quindi Acciaierie Ferrero

IN FOTO Le Ferriere di Settimo, poi Cravetto, quindi Acciaierie Ferrero

A partire dal primissimo Novecento, Settimo ebbe parte in quasi tutte le lotte operaie che divamparono a Torino, dalle agitazioni sindacali e politiche del periodo giolittiano ai conflitti fra capitale e lavoro dei decenni successivi; dalle manifestazioni per la pace, nel 1914-15, alla sommossa dell’agosto 1917, mentre la sospirata fine della Grande guerra sembrava allontanarsi giorno dopo giorno; dai fermenti rivoluzionari del «biennio rosso» alle battaglie contro il fascismo dilagante, dopo il 1922; dagli scioperi del 1943, che segnarono la fine di un lungo periodo di ripiegamento politico, alle battaglie degli anni Sessanta e Settanta. Poco prima del secondo conflitto mondiale, dopo l’apertura degli stabilimenti Cravetto, Meroni e Feroldi, il passaggio da paese prettamente agricolo a centro di fabbriche poteva ritenersi in fase di avanzato compimento.

Ora, invece, la zona di Settimo è compresa fra quelle che da tempo la Comunità europea definisce «a declino industriale». Importanti aziende hanno cessato l’attività. I luoghi della produzione materiale non imprimono più i propri ritmi all’intera società. Come paiono lontani i tempi in cui i lavoratori in sciopero della Nebiolo, rivolgendosi al consiglio comunale di Settimo, asserivano che la loro battaglia all’interno dell’azienda doveva essere ritenuta «una lotta che investe tutta la società».

«Le fabbriche – osservava qualche anno fa storico torinese Giuseppe Bertanon sono [più] sedi costitutive di identità, nemmeno come luoghi da odiare e combattere. I tentativi di misurare e rappresentare i comportamenti sociali [...] riveleranno vaste zone grigie, una specie di terra di nessuno ove non sembra avere presa alcun elemento di identificazione forte e si va diffondendo un grado crescente di apatia».

IN FOTO Lo stabilimento della Farmaceutici Italia

IN FOTO Lo stabilimento della Farmaceutici Italia

Anche i conflitti si sono spostati in ambiti dove la produzione di massa incide pochissimo: non più capitale-lavoro, ricchi-poveri, proletari-borghesi, ma giovani-adulti, occupati-disoccupati, italiani-stranieri, magrebini-romeni, lavoratori precari-pensionati.

A originarli non è la carenza di risorse economiche, ma la frantumazione della società ossia il degrado dei rapporti umani, la solitudine, la poca fiducia in se stessi, l’incertezza del futuro, la paura del mondo globalizzato e dei «diversi» o «perdenti» (migranti, persone senza fissa dimora, zingari, disadattati, ecc.) all’uscio della propria casa.

Una fase della storia sembra essersi chiusa per sempre. Ma quale altra si è aperta? 

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