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02 Settembre 2025 - 20:56
Ci sono immagini che resistono al tempo e riemergono nei momenti più inattesi, diventando specchio di un’epoca. La morte di Emilio Fede, avvenuta il 2 settembre 2025 a 94 anni, riporta in superficie un frammento televisivo del 1976, quando la sua voce scandiva notizie di sport con il rigore tipico della Rai di quegli anni. Non è l’uomo del TG4 schierato e polemico, non il direttore fedele a Berlusconi che tutti ricordano: in quel documento d’archivio appare un giornalista giovane, formale, immerso in un’Italia che si riconosceva nelle vittorie dei suoi atleti.
In quel telegiornale, Fede annuncia: «Corrado Barazzutti ha conquistato il primo punto della finale di Coppa Davis in svolgimento a Santiago del Cile». Le immagini mostrano anche Adriano Panatta, simbolo della generazione che avrebbe regalato all’Italia l’unica Coppa Davis della sua storia.
Il contesto era tutt’altro che neutro. Quella finale del 1976 si disputava in Cile, in piena dittatura di Augusto Pinochet, a tre anni dal colpo di Stato che aveva insanguinato il Paese. La scelta di giocare a Santiago venne contestata da più parti, ma l’Italia decise di esserci. E il trionfo degli azzurri, con Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli, restò inciso nella memoria collettiva.
Rivedere oggi quel servizio è come aprire una finestra su un’Italia che stava cambiando. La televisione pubblica era il principale strumento di informazione e i telegiornali incarnavano ancora un’idea di serietà istituzionale. Fede, che di lì a poco sarebbe diventato direttore del TG1, conduce con distacco professionale, lontano da quella cifra di parte che caratterizzò la sua stagione successiva.
Il contrasto tra quel Fede del 1976 e l’uomo che avrebbe legato il proprio nome per vent’anni al TG4 è netto. Da un lato un cronista che racconta uno storico successo sportivo, dall’altro il volto di un giornalismo militante, amato e odiato per le stesse ragioni. La sua parabola professionale, oggi che si chiude, trova in quel documento un contrappunto quasi ironico: prima l’informazione sobria della Rai, poi l’informazione urlata e schierata delle reti Fininvest.
Eppure, al di là della figura controversa, quel filmato conserva un valore che va oltre il singolo giornalista. Mostra un’Italia che si stringeva attorno ai suoi campioni, che viveva lo sport come occasione di riscatto e che attraverso la voce di un telegiornale istituzionale ritrovava orgoglio e unità. La vittoria in Cile non fu soltanto un titolo sportivo: fu un evento carico di significati politici, culturali e simbolici, in un mondo spaccato dalla Guerra fredda e segnato dalle dittature sudamericane.
Oggi, alla notizia della morte di Fede, riascoltare quella frase dedicata a Barazzutti significa fare i conti con due Italie diverse: quella che nel 1976 celebrava un trionfo sportivo e quella che negli anni Novanta e Duemila avrebbe diviso il pubblico davanti ai telegiornali di Rete 4. Tra queste due immagini corre un filo fatto di televisione, potere e contraddizioni, che ha accompagnato l’intera carriera del giornalista siciliano.
Quel documento resta, dunque, un pezzo di storia. Non tanto per celebrare Emilio Fede, personaggio che ha lasciato più ombre che luci nel panorama dell’informazione, ma perché restituisce l’atmosfera di un tempo in cui i telegiornali Rai erano specchio fedele del Paese e di un successo che ancora oggi rimane unico nella storia del tennis italiano.
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