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Parco o bosco? Duemilioni di euro "buttati"

Due milioni per un 'bosco': il parco urbano di Settimo Torinese tra polemiche e greenwashing

Due milioni di euro. È questa la cifra che campeggia come una lapide sull’ultimo grande mistero di Settimo Torinese: il “raddoppio” del Parco Berlinguer. O meglio, del bosco Berlinguer, come lo chiama oggi l’assessore Alessandro Raso in un video istituzionale.
Sì, proprio lui, l’assessore che non Rasa, almeno non l’erba. Quello degli asterischi per intenderci...

Per la cronaca – e per farsi un’idea di quanto ci stanno prendendo per il sedere – era stato inaugurato con grande enfasi lo scorso anno, qualche settimana prima delle elezioni comunali, dalla sindaca Elena Piastra, in pompa magna e con tanto di sorrisi da brochure.
Un’opera non finita, inaugurata per la foto di rito, lasciata lì a metà come una torta sfornata troppo presto.

Adesso, con l’installazione dei pannelli informativi – e solo ora – l’Amministrazione annuncia urbi et orbi: “I lavori sono conclusi”. Applausi a scena aperta. In attesa della prossima inaugurazione.

Il Comune ci tiene a ribadire che si tratta di un “polmone verde”, un “bosco in città”, con ben duemila nuovi alberi piantumati, percorsi ciclabili, aree umide per uccelli e anfibi, e persino una zona con le porte da calcio. Anche se – va detto – al momento il campo non si può usare. Perché l’erba deve “crescere per attecchire correttamente”. E guai a toccarla prima di luglio.

Ma torniamo all’essenza del problema.
Cos’è oggi il Parco Berlinguer? Un parco o un bosco?
Perché nel titolo del post social il Comune lo chiama ancora parco, ma poi nel testo e nel video si corregge: “bosco urbano”.

Una differenza sottile, direbbe qualcuno. Ma quando c’è di mezzo una spesa da due milioni di euro, le parole contano. Eccome se contano.

Perché se fosse davvero un parco – come molti cittadini credono e come il suo nome lascia intendere – sarebbe lecito aspettarsi erba tagliata, panchine curate, campi da gioco funzionanti, vialetti ben tenuti.
Il bosco è un’altra cosa: l’erba cresce spontanea e non si deve toccare. Lo spiega con orgoglio anche l’Amministrazione, che torna a parlare dei famosi “insetti impollinatori”.

Avete capito bene.
Due milioni di euro per non tagliare l’erba. Per lasciare che la natura faccia il suo corso indisturbata.
E tutto questo come se il Piemonte non fosse già pieno di boschi veri, spontanei, naturali. Gratis.
O pieno zeppo di pioppeti che non solo non costano, ma producono un reddito anche discreto. Basta guardarsi intorno…

Altro che sostenibilità. Qui siamo al confine con l’assurdo...

 

Perché se davvero si voleva un bosco, bastava non fare nulla. Lasciare che le gaggie, le robinie e l’ortica crescessero come fanno ovunque, senza appalti, senza pannelli informativi, senza giustificazioni PNRR e CO₂.

E invece si è scelta l’operazione d’immagine.
Quella che si mostra bene sui social, quella che fa curriculum alla voce “sindaca Elena Piastra green” e “città modello europea”.

Peccato che il risultato finale sia un bosco qualunque, ma pagato come un giardino pensile di Singapore.
Peccato che sono soldi che in un modo o nell'altro verranno pagati dai cittadini con le tasse e che se fossero stati soldi loro, col cavolo che li avrebbero sperperati così.

Il Comune insiste: “I nuovi alberelli verranno monitorati”.
E meno male. Magari qualcuno controllerà se attecchiscono davvero.
E si spera che non servano altri euro per sostituirli, e che qualcuno si ricordi di innaffiarli, considerando che nell’ultimo anno abbiamo solo visto alberi morire di sete.

E poi c’è la ciliegina finale: il campo da calcio.
Una volta era usato dai ragazzi del quartiere.
Oggi è inutilizzabile.
Chiuso, in attesa che l’erba cresca e che la Natura – ancora lei – si arrangi da sola.

Insomma, niente da festeggiare.
Altro che “conclusione dei lavori”: qui si conclude solo il più grande sperpero di denaro pubblico della storia della storia della città, nel nome della biodiversità e con quel tono finto solenne da chi si crede illuminato, con l’asterisco finale.

Perché la verità è una: quando si spendono due milioni di euro per qualcosa che assomiglia pericolosamente a ciò che la natura produce da sola, la reazione è solo una: mandarli tutti a quel paese. E no, non è quello delle meraviglie.

Il bosco non si fa: succede.
Ma a Settimo lo fanno coi soldi (degli altri)

E poi ci spiegano pure che è sostenibile, strategico e impollinato. Applausi.

C’è un principio che chiunque abbia messo almeno una volta le mani nella terra conosce bene: la natura non si progetta, si accompagna.
Non ha bisogno di piani strategici, di linee guida o di pannelli esplicativi. E men che meno ha bisogno di due milioni di euro per crescere spontaneamente.

È per questo che fa un certo effetto leggere il post trionfale del Comune di Settimo sul “bosco in città” – ex parco Berlinguer – dove si celebrano alberelli piantati, sfalci differenziati, e umidità controllata al servizio degli insetti impollinatori.
Tutto molto bello, sulla carta. Anzi: tutto molto bello sul cartello.

Ma a ben guardare, il messaggio è chiaro: non è più il Comune a prendersi cura della natura, è la natura che viene messa al servizio della narrativa istituzionale.
L’erba cresce? È biodiversità.
Non si taglia? È sostenibilità.
Il campo da calcio è impraticabile? È il verde che attecchisce.
E via di parole d’ordinanza: resilienza, clima, CO₂, Agenda 2030, e l’immancabile accenno agli uccelli acquatici.

bosco

Tutto giustificato, tutto spiegato.
Come se ci fosse davvero bisogno di giustificare una distesa di erba alta, cespugli e pianticelle ancora in attesa di capire se ce la faranno o no.
Come se il bosco fosse una di quelle cose che, senza l’intervento dell’Amministrazione, non sarebbe mai potuta esistere.

E invece il bosco, lo sanno tutti – o almeno chi ha fatto la terza elementare in una scuola senza Wi-Fi – succede da solo.
Cresce dove l’uomo smette di intervenire.
Basta un prato abbandonato, qualche seme portato dal vento, un po’ di tempo e – magia – hai biodiversità vera. Quella che non si firma in calce a un progetto PNRR.

Quindi perché mai spendere due milioni per qualcosa che la natura fa gratis?
Perché trasformare in opera pubblica quello che in qualsiasi altra zona del Piemonte si chiama “campagna lasciata andare”?

La risposta, forse, sta nel bisogno sempre più urgente di trasformare ogni foglia in storytelling, ogni pozzanghera in ecosistema, ogni arbusto in performance ambientale, per la gioia di una sindaca che ha bisogno come il pane di raccontare qualcosa tutti i santi i giorni...

Ma la natura, quella vera, non si presta al palcoscenico.
Non ha bisogno di essere raccontata, celebrata o inaugurata con la fascia tricolore.

In questo caso, poi, siamo oltre l’equivoco: siamo alla confusione deliberata.
Lo si chiama parco nel titolo, bosco nella descrizione.
Si giura che verrà curato, ma guai a toccare l’erba.
Ci si vanta del campo sportivo, ma è chiuso perché l’erba deve crescere.
È un luogo pubblico, ma intoccabile. È naturale, ma progettato. È finito, ma non utilizzabile.

E allora, più che “bosco urbano”, forse il termine corretto sarebbe “greenwashing territoriale”.
Un’operazione in cui non si è costruito un bosco, ma un’idea di bosco, con dentro tutto ciò che fa scena, e niente che faccia ombra.
Nei sensi più letterali e metaforici del termine.

Certo, tra dieci anni – se gli alberi sopravvivranno – forse ci sarà davvero un piccolo ecosistema.
Ma quello che c’è ora, oggi, è una grande occasione persa per dimostrare che si può fare verde pubblico utile, semplice, onesto.
Senza effetti speciali. Senza retorica. E senza il bisogno di raccontare che l’erba alta è un’innovazione sociale.

Perché un bosco che costa milioni e deve essere spiegato non è un bosco. È un progetto.
E quando serve un comunicato stampa per giustificare il fatto che non si taglia l’erba, allora forse non stiamo più parlando di natura, ma solo di politica.

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