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02 Giugno 2025 - 13:44
Dal Chivassese alla Striscia di Gaza. Parte da qui, da una voce conosciuta e rispettata nel mondo dei diritti umani, il racconto di una delle mobilitazioni internazionali più coraggiose e discusse degli ultimi anni. Si chiama Global March to Gaza, è una marcia pacifica che punta a rompere l’assedio su Gaza e a far entrare gli aiuti umanitari bloccati da mesi. A guidare la delegazione italiana, insieme ad altri attivisti, c’è Antonietta Chiodo, fotoreporter di guerra, reporter indipendente, mamma di tre figli e soprattutto testimone diretta di quanto accade da anni nei territori palestinesi.
“Sì, eccomi”. Antonietta risponde così alla prima domanda. Voce determinata, occhi lucidi. Ha accettato di raccontarci com’è nata l’idea della marcia, chi ci sarà, quali sono i rischi e soprattutto qual è il senso profondo di questo gesto collettivo. “Global March to Gaza è un movimento che nasce dal basso. Non c’è dietro un’organizzazione ufficiale: ci sono cittadini, medici, attivisti, reporter, cooperanti, molti dei quali hanno vissuto o lavorato nei territori palestinesi. E ci sono i palestinesi, che sono parte attiva del nostro cammino”, spiega.
Il 12 giugno le delegazioni partiranno da tutto il mondo per convergere al Cairo, in Egitto. Il 13 cominceranno a marciare verso il valico di Rafah, oggi simbolo della tragedia umanitaria in corso. “Ci muoveremo a piedi, percorreremo circa undici chilometri al giorno, ci accamperemo nel Sinai. Non sarà una passeggiata. Ma saremo lì, uniti. Via terra, via cielo e via mare, insieme alla Freedom Flotilla. Sarà una marcia pacifica, ma determinata”.
Chiodo ha vent’anni di esperienza come reporter nei territori di guerra. Ha vissuto a Hebron, Jenin, in Cisgiordania, in piena zona occupata. Ha lavorato a progetti umanitari come The Milky Way, con la dottoressa Paola Manduca. “Facevamo entrare il latte in polvere per i neonati. Era l’unica speranza per salvarli. Questa marcia è un’estensione di quel lavoro. È un atto politico, civile e umano”, dice.
Antonietta Chiodo in Palestina
In Italia, l’iniziativa si sta organizzando soprattutto attraverso il canale Telegram “Global March to Gaza - Italia”. Il numero dei partecipanti è ancora incerto, ma l’obiettivo minimo è 150 persone. “Non stiamo parlando di un corteo da duemila persone. È una marcia fisica, impegnativa, serve un budget di circa mille euro a testa e almeno una settimana di ferie. Per questo abbiamo lanciato anche un crowdfunding. Ma l’importante è partire. Se arriveremo in 150, sarà un successo. A livello globale siamo circa cinquemila”.
E qui arrivano i rischi. L’Egitto, da cui partirà la marcia, è una zona militarizzata. I permessi per accedere al Sinai e avvicinarsi al valico non sono ancora arrivati. Il silenzio è assordante, soprattutto da parte dei governi. “Abbiamo informato tutti gli ambasciatori. Quello italiano al Cairo è al corrente. Abbiamo chiesto il permesso al governo egiziano, ma non abbiamo ancora avuto risposta. Forse non arriverà mai. Ma noi partiremo lo stesso, finché non ci diranno un ‘no’ esplicito”.
Nel frattempo, i preparativi vanno avanti. Oltre 150 ONG internazionali hanno espresso sostegno ufficiale. Tra i partecipanti ci saranno avvocati, medici, reporter, anche parlamentari spagnoli di Podemos. “Abbiamo una rete legale pronta a intervenire in caso di problemi. E ci saranno anche team medici, squadre logistiche, un camion con acqua e cibo che ci seguirà lungo il tragitto. Nessuno verrà lasciato solo”.
Perché Rafah? Perché quel valico è l’unico corridoio possibile per far entrare aiuti e far uscire persone. Ma è chiuso. “Non è solo una questione di aiuti umanitari. È un fatto di dignità. I palestinesi non possono uscire. Nemmeno con doppio passaporto. Nemmeno per studiare o curarsi. Io ho visto madri supplicare per far curare i figli e sentirsi dire di no. È una prigione a cielo aperto. E va detto chiaramente: da 76 anni”.
Nella sua voce, mentre racconta, si avverte la frustrazione di chi ha visto troppo. Di chi non può più sopportare il silenzio. “La narrativa occidentale è distorta. In Palestina, uccidere un palestinese non è considerato un reato. Nessun colono viene processato. Nessuno paga. Questo è il punto. Non è una guerra, è un’occupazione sistematica”. Racconta di un villaggio, Tkua, in Cisgiordania, accerchiato da insediamenti israeliani. Racconta dei bambini cresciuti tra i raid, delle esecuzioni sommarie. “Ho visto morire un ragazzo del mio progetto. Ho intervistato madri a cui hanno ucciso i figli. Come si fa a tornare indietro da certe cose?”. Eppure, nel buio, c’è spazio per una chiamata alla speranza. “Questa è una marcia anche per noi. Per la nostra coscienza. Chi vuole aderire deve avere coraggio. È il momento di fare una scelta. Non si tratta solo di Gaza, ma dei diritti umani, del diritto internazionale. Se li lasciamo morire lì, muoiono ovunque”.
Sul canale Telegram è disponibile il modulo di adesione. Compilarlo è indispensabile. “Solo così potremo inserire i partecipanti nella rete di sicurezza. Altrimenti, partire da soli è pericoloso. L’Egitto è una zona militare, non ci si può improvvisare. Ma chi compila il modulo sarà protetto, informato, accompagnato”.
E se la marcia non si potrà fare? Antonietta non vuole rivelare il piano B. Ma assicura che qualcosa si farà comunque. In Italia e in altri paesi. “Non possiamo più stare a guardare. Ci sono bambini che muoiono ogni giorno. Il 50% dei morti sono minori. È finito il tempo del silenzio”.
In chiusura dell’intervista, Antonietta ricorda la lettera che il movimento ha inviato alle ambasciate di Egitto e Israele: “Marceremo per la vita. Marceremo per la dignità. Non porteremo armi: porteremo le nostre voci. Ma siate certi che non ci fermeremo”. E se la politica tace, la società civile si muove. Con coraggio. Con amore. Con determinazione. Perché, come dice Antonietta, “questa marcia resterà nella storia. E nel cuore di chi avrà avuto il coraggio di esserci”.
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