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03 Dicembre 2022 - 11:42
Giuseppe Giacosa
Nacque centosettantacinque anni fa, il 21 ottobre 1847, a Colleretto Parella, sulle colline moreniche del Canavese. A lui sono dedicati teatri, strade, scuole, piazze in Piemonte e altrove, da Ivrea a Chivasso e Montanaro, da Settimo Torinese a Moncalieri e Chieri, persino a Milano, Roma, Padova, Trezzano sul Naviglio e Portogruaro. Lo hanno definito in molti modi: «il più importante commediografo verista italiano»; lo «specchio dei gusti della società letteraria» di fine Ottocento; «uno tra i più qualificati rappresentanti della letteratura ufficiale dell’età umbertina». Ma anche «nostalgico commentatore del Piemonte», «scrittore privo di coerenza interiore e, conseguentemente, di una vera personalità poetica». Giudizio, quest’ultimo, un po’ troppo parziale e riduttivo.
Romanziere, poeta e autore di teatro, Giuseppe Giacosa fu un intellettuale fecondo e versatile, un «bonario» piemontese che mantenne strettissimi legami con la propria terra d’origine e seppe interpretare le aspirazioni di una borghesia priva di grandi ideali come quella italiana del periodo postunitario, dedita al culto del lavoro, immersa nelle compiacenti consolazioni della vita familiare, desiderosa di tranquillità e sicurezza sociale.
Laureatosi in giurisprudenza, nel 1868, all’Università di Torino, Giacosa abbandonò quasi subito l’attività forense per seguire le proprie inclinazioni letterarie. «Come ebbi strappato la laurea in legge, mi diedi sul serio a non far nulla», ricorda nelle sue «Memorie d’avvocato». E ancora: «Sono stato in Corte d’assise, e ho fatto una difesa. Oh! Che sia l’ultima per carità. Non mi ci sento nato a quel lavoro. Parlo male e paio mille volte più stupido che non sono... Naturalmente il mio cliente fu condannato, e nientemeno che alla galera a vita. Avevo un po’ di rimorso: ma oggi poi seppi di certa scienza che è colpevole. Meno male. Ho contribuito a liberare la società da un briccone e ne sono altamente onorato».
I drammi di ambiente medioevale e di argomento borghese decretarono il successo di Giuseppe Giacosa. «Una partita a scacchi», messa in scena per la prima volta a Napoli nel 1873, è una favola lirica ambientata nel Medioevo fantastico e romantico degli «uomini di ferro di ogni mollezza schivi [...], con tre motti stampati nel cuore: il re, la dama, Iddio». Il pubblico fu letteralmente conquistato dalle suggestioni evocative e dal lirismo della languorosa vicenda di cui sono protagonisti la bella Iolanda e il paggio Fernando. Non così la critica. Ma la migliore produzione di Giacosa è costituita dalle commedie «Tristi amori» e «Come le foglie». Al centro dei due drammi psicologici vi è la crisi della famiglia borghese, minacciata dal pericolo del disfacimento, all’interno di una società che si rivela incapace di reagire alle debolezze, alle meschinità e agli egoismi dei tempi moderni.
Nel 1886 uscirono le «Novelle e paesi valdostani», sensibili all’influsso verista. «Novelle senza intreccio – spiega lo stesso Giacosa – ma così voleva l’intento mio». «Nella maggior parte di esse – aggiunge – non invento, registro». Secondo alcuni critici, l’opera rappresenta, forse, «un tentativo sul piano concreto della letteratura di mantenere in vita il più a lungo possibile certi ideali di estrazione borghese, affidandoli all’umanità saggia, ma primitiva, dei suoi montanari».
Seguirono, nel 1897, i «Castelli valdostani e canavesani». È stato giustamente osservato come Giacosa riesca abilmente a tradurre il resoconto storico in una narrazione vivacissima, spigolando fatti e dati curiosi. Più che offrire un insieme di notizie, egli tende a suscitare la «curiosità della nozione», come afferma il critico letterario torinese Giorgio De Rienzo (1942-2011). «Più che la determinazione storica, a Giacosa interessa il ritrovarsi nella storia», genericamente definita come passato e come tradizione, immutabile nei secoli e, pertanto, garanzia di sicurezza esistenziale e di continuità nel futuro.
IN FOTO La casa di Giuseppe Giacosa a Colleretto Parella (dal 1953 Colleretto Giacosa)
È stato altresì osservato che lo scrittore canavesano cerca costantemente conferme a una quieta e operosa filosofia dell’esistenza, la quale contraddistingue la borghesia. Le nobili donzelle dei manieri valdostani non disdegnano di scendere nel cortile a sciorinarvi i panni o di danzare al suono del piffero davanti alla chiesa del villaggio. «Gli elmi, le piume e gli stemmi, l’apparato nobiliare e feudalesco» passano in secondo piano di fronte alle cure quotidiane e al «borghese governo della casa». Così puntualizza lo stesso Giacosa, tratteggiando la vita castellana dei secoli quattordicesimo e quindicesimo. «Ecco gli uomini che somigliano a noi, e le donne che sanno cucire e far di bucato».
Lo scrittore si spense a Colleretto il 1° settembre 1906.
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