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Lo stiletto di Clio

Fra luci e ombre, Francesco Bessone

Fu un suo merito aver compreso che una comunità non può prescindere dai vincoli di appartenenza o, meglio, dai sentimenti identitari

IN FOTO Anni Sessanta del secolo scorso, Carnevale a Settimo Torinese. Al centro il canonico Guglielmo Pistone, a destra un giovanissimo Francesco Bessone, presidente della Pro loco

IN FOTO Anni Sessanta del secolo scorso, Carnevale a Settimo Torinese. Al centro il canonico Guglielmo Pistone, a destra un giovanissimo Francesco Bessone, presidente della Pro loco

A mio parere, due episodi concorrono più di altri a definire la complessa personalità di Francesco Bessone, il Gran priore gamberaio di Settimo Torinese, nato nel 1939 e recentemente scomparso.

I panettieri del papa

Il primo. Correva l’anno 1997. La città degli articoli per la scrittura fu ospite d’onore nel programma televisivo «Unomattima» condotto dalla garbatissima Melba Ruffo. Il sindaco Giovanni Ossola m’invito a fare parte della folta delegazione che doveva accompagnarlo a Roma. Di solito rifuggo dalle comparsate televisive e teatrali, ma quella volta non potei esimermi dall’accettare, non volendo dispiacere al primo cittadino. Pertanto, come Giuseppe Garibaldi a Bezzecca, obbedii.

Di primo mattino, il 16 giugno, l’allegra brigata giunse in torpedone a Saxa Rubra, dove si trova il più importante fra i centri di produzione della Rai. Alcuni di noi erano palesemente euforici, altri un po’ intimoriti. Negli studi televisivi facemmo uno splendido ingresso, degno dei più acclamati condottieri di Roma imperiale. 

D’altronde, non eravamo nell’Urbe eterna? Mantellati di un rosso fiammante, i gamberai indossavano il costume d’ordinanza, con tanto di tricorno. La Lavandaia e le sue damigelle reggevano ceste colme di penne a sfera, ma anche vassoi con involtini di cavolo, fette di brasato alla piemontese e pesche ripiene. C’era pure un gigantesco pane a forma di torre medievale, il simbolo della città di provenienza. 

A un osservatore smaliziato, la scena poteva forse apparire un pochino kitsch, però era d’effetto.

Tutto procedette per il meglio finché Beppe Bigazzi, esperto di gastronomia e conduttore in seconda del programma, non scorse un grosso canestro di grissini. «Che cosa sono?», domandò il navigato aretino, con tono da finto sempliciotto.

Francesco Bessone fu pronto a impadronirsi del microfono: «Sono grissini prodotti dai nostri panettieri, i Montini». 

E Bigazzi: «Montini? Sono forse parenti di Giovanni Battista Montini, Paolo VI?». 

Fu allora che Bessone diede il meglio di sé: «Parenti molto stretti, certamente! E ogni anno, finché il papa fu in vita, fecero pervenire in Vaticano enormi confezioni di prodotti da forno».

I Montini di Settimo, «ça va sans dire», non erano affatto famigliari del pontefice deceduto nel 1978 né recapitarono mai biove, michette e grissini nei sacri palazzi apostolici. A telecamere spente, Ossola rimproverò Bessone per la sua sfrontatezza: «Che cosa ti è saltato in mente? Sei impazzito? Dobbiamo sempre farci riconoscere?». 

E il Gran priore gamberaio, più serafico del solito: «Mi è venuto spontaneo».

Un angoscioso dubbio continua tuttora a turbare il sonno dei buoni cittadini di Settimo. Si trattò di un’emerita facezia, una sorta di spiritosaggine alla Mascetti di «Amici miei», oppure di un’alzata d’ingegno per dare lustro al «natio borgo selvaggio» di leopardiana memoria? Ognuna delle due ipotesi contiene forse una parte di verità.

IN FOTO Anni Sessanta del secolo scorso, Carnevale a Settimo Torinese. Al centro il canonico Guglielmo Pistone, a destra un giovanissimo Francesco Bessone, presidente della Pro loco

IN FOTO Anni Sessanta del secolo scorso, Carnevale a Settimo Torinese. Al centro il canonico Guglielmo Pistone, a destra un giovanissimo Francesco Bessone, presidente della Pro loco

Il teologo fai da te

Per il secondo episodio occorre andare ben più indietro nel tempo, sino al remoto 1983. Quell’anno, presidente della Pro Loco, Francesco Bessone organizzò il primo «Carnevalissimo». Il guaio fu che la briosa iniziativa si tenne la seconda domenica di Quaresima. In una Settimo non ancora scristianizzata come quella dei nostri tempi, le reazioni non si fecero attendere. E furono ferocissime. Alle accuse di empietà seguirono le contraccuse di bacchettoneria. Tutto nasceva dal fatto che la Pro loco bessoniana non era in grado di allestire carri allegorici, pertanto doveva contare su quelli di fuori, i quali, la domenica e il martedì di Carnevale, sfilavano nei rispettivi paesi. Da lì l’idea di posticipare le manifestazioni.

Preferendo le strade tortuose a quelle rettilinee, il Gran priore volle buttarla in politica, anzi in teologia. Improvvisatosi padre della Chiesa e specialista di esegesi biblica, sostenne che il «Carnevalissimo» offriva ai devoti cattolici un’imperdibile occasione per «praticare la carità in letizia». 

D’altronde, nessuno – proseguì – associava più la Quaresima ai digiuni e alle sferzate con la frusta penitenziale. Via libera, dunque, a frizzi, lazzi e triccheballacche dopo il Mercoledì delle ceneri.

È facile immaginare come la prese l’austero e colto curato di San Pietro in Vincoli, il canonico Guglielmo Pistone, ma anche don Giacomo Rovera e don Lorenzo Osella, parroci rispettivamente di Santa Maria e di San Giuseppe Artigiano. Sta di fatto che, sul finire del 1987, quando una giunta municipale di pentapartito subentrò a quella di sinistra, il gruppo democristiano di cui facevo parte pretese che tutti i carnascialeschi sollazzi fossero ricondotti ai tempi canonici. Né risulta che i comunisti, finiti in minoranza dopo diciassette anni di amministrazione del Comune, ebbero a lagnarsi del conseguente provvedimento.

IN FOTO Giugno 1997, i giornali riferiscono della pa rtecipazione dei settimesi a «Unomattina»

IN FOTO Giugno 1997, i giornali riferiscono della pa rtecipazione dei settimesi a «Unomattina»

La tradizione inventata

Francesco Bessone era così. Suscitava istintive simpatie e non meno istintive avversioni. Un grande merito, però, occorre riconoscergli. Prima di altri, negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, mentre un’incontenibile crescita demografica sconvolgeva valori e costumi, si pose il problema dell’identità cittadina. E agì più o meno consciamente per creare una tradizione intesa quale processo che costruisce il passato in rapporto alle esigenze del presente.

Cerchiamo d’intenderci. A Settimo, «temporibus illis», le lavandaie e i pescatori di gamberi d’acqua dolce non si riunivano in gaudenti congreghe per sbevazzare nelle grolle valdostane né bruciavano crostacei di paglia al termine delle feste patronali, traendo auspici per la successiva stagione agricola. Nessuno rischiava l’osso del collo scalando solinghe torri e neppure s’intentava causa a sudicie vecchie nei giorni di Carnevale. Tanto meno, per quanto se ne sa, la facevano da padrone gli sculdasci longobardi.

Com’è ampiamente noto, «ad origenem omnia» vi è il Gran priore con la sua fervida fantasia. Si può dunque tacciarlo di gherminelle o d’imposture? Per nulla! Infatti nessun personaggio folcloristico dell’Italia dai mille campanili, neppure il pur vecchio Gianduia, è giunto direttamente a noi dai remotissimi tempi in cui Berta filava. Tutti sono stati ideati in epoche variamente individuabili sulla scorta dei documenti storici, secondo fantasticherie oppure obiettivi culturali, sociali e ludici che si ritenevano importanti. In altri termini, come ben sanno gli antropologi, la tradizione è una forma di filiazione inversa: sono i figli a creare i padri e non viceversa ossia sono le dinamiche e gli interessi del presente a decidere come immaginare il passato.

Come un fungo dopo le piogge

E ora cerchiamo di compiere un ulteriore passo in avanti. Molti sono convinti che la tradizione debba necessariamente presentare una certa continuità nel tempo: in caso diverso si tratta di una moda ossia di un fenomeno sociale destinato, prima o poi, a tramontare. In realtà, le cose stanno in modo affatto diverso. Intendo dire che la tradizione non nasce dalla continuità col passato, ma dalla discontinuità. Soltanto di fronte alle fratture della storia, cioè ai processi di rapido mutamento, il passato viene recuperato o inventato sotto forma di tradizione.

A titolo di esempio, consideriamo la figura della Bella lavandaia. È risaputo che Bessone la trasse dal suo fornitissimo scrigno delle estrosità intorno al 1970 ossia in anni in cui le lavanderie artigianali attraversavano una profonda crisi, essendosi diffuse le lavatrici domestiche prodotte da Candy, Ignis, Zanussi e così via. Eppure il Carnevale settimese è nato nel 1946. Perché il personaggio della Lavandaia non fu introdotto cinque lustri prima? Perché, desiderando creare una o più figure caratteristiche, si optò per Gianduia, Giacometta e il Sindaco?

La risposta è di una semplicità sorprendente. Allora le lavanderie prosperavano, rivaleggiando con quelle della vicina Bertolla. Quando le generazioni si succedono senza significative fratture, non si avverte la necessità di richiamarsi a consuetudini, modelli e cerimonie che si pretendono tradizionali. In termini più semplici, non c’è bisogno delle tradizioni.

Nel 1963, a Settimo, aprì la prima lavanderia automatica. Non si trattò di un’imperdonabile provocazione («o tempora, o mores!») poiché un’epoca stava tramontando in maniera irreversibile. Ed ecco che, di lì a qualche anno, come un fungo dopo le piogge d’autunno, spuntò la figura della Bella lavandaia. La tradizione – ripeto – non è un prodotto del passato, ma l’interpretazione di quest’ultimo in base ai criteri della contemporaneità.

La storia travisata e l’identità che non emargina

Da una tale angolatura, Francesco Bessone non è stato un mistificatore della storia. Fu un suo merito aver compreso che una comunità non può prescindere dai vincoli di appartenenza o, meglio, dai sentimenti identitari. In tale ambito s’impegnò a fondo con acume, ingegno e fantasia affinché i cittadini vecchi e nuovi di Settimo Torinese potessero ritrovarsi in una comune matrice culturale, sufficientemente riconosciuta e condivisa.

Tutto bene, insomma? 

Niente affatto! Alla ricerca d’impossibili conferme per i propri sogni, purtroppo, il Gran priore volle avventurarsi «in partibus historiæ», quella che si ricostruisce con avvedutezza, prudenza e parecchia fatica. Per lui, un terreno scivolosissimo. Si arrischiò così a interpretare artatamente le fonti documentarie: alcune le stravolse, interpolandole, altre le falsificò di sana pianta. Non ce n’era alcun bisogno. Da lì un’infinità di aspre polemiche e di animosi battibecchi. Il risultato è che tutto quanto Bessone ha scritto in materia di storia, soprattutto medievale di cui era competente come io lo sono di meccanica quantistica, è da vagliare con estrema attenzione.

Ciò non toglie che egli abbia davvero amato Settimo Torinese, forse più di tanti suoi detrattori. In genere, quando ci si misura con le cosiddette identità collettive, si corre il rischio di giustificare le pratiche escludenti, osteggiando le relazioni e creando artificiose incompatibilità. In un’unica parola, discriminando. Proprio perché Bessone amava sinceramente Settimo, non soltanto evitò di ricorrere alla tradizione per emarginare o respingere, ma se ne servì quale strumento per accogliere e includere. Credo che sia stata questa la sua più grande virtù: occorre riconoscergliela senza distinguo né ambiguità.

A orientare Francesco Bessone in tempi di pregiudizi diffusi furono i profondi sentimenti solidaristici, socialisti e antifascisti ereditati dai famigliari. A questo proposito è impossibile non soffermarsi sulla grana di Carlotta Enrico, la madre del Gran priore, che esplose con effetti dirompenti nel 1997.

La grana del giardino pubblico

Francesco Bessone desiderava vivamente che una strada della città tramandasse il ricordo dell’augusta genitrice, deceduta nel 1971. A Settimo, la donna aveva gestito il Caffè Italia a cui i partigiani si erano appoggiati, durante la Resistenza, per inviare armi e munizioni alle unità garibaldine di Pian Audi. Poche settimane prima della Liberazione, per estorcerle ciò che sapeva, militi della Decima Mas l’avevano messa contro un muro, nell’attuale piazza del municipio, percuotendola con violenza e minacciandola di morte. Ma la donna aveva taciuto a rischio della vita.

Per motivi facilmente immaginabili, l’idea che il cognome Bessone figurasse su una targa stradale risultava fortemente divisiva. All’epoca facevo parte della commissione comunale per la toponomastica. Molto saggiamente, decidemmo di evitare scontri al calor bianco. Sulla targa, la donna sarebbe figurata col cognome da nubile, Enrico, e la sua vera qualifica, patriota e non partigiana, come a suo tempo disposto dalla commissione piemontese che mise ordine nel ginepraio dei ruoli resistenziali. Si scartò, infine, l’ipotesi d’intitolarle una strada nel centro cittadino, ripiegando su un’area verde del Borgo nuovo, senza numeri civici. Nonostante ogni accortezza, l’11 giugno 1997, la proposta fu approvata di stretta misura con quattro voti favorevoli e tre contrari.

Quando la notizia gli venne riferita, Bessone montò su tutte le furie. La scelta non gli garbava e la respinse sdegnosamente. Così la povera Enrico non ebbe la sua bella targa stradale. Sennonché, come dicevano i latini, «tempora mutantur et nos mutamur in illis». Diciannove anni dopo (sì, proprio così, diciannove anni dopo), Bessone venne a più miti consigli. Il 31 marzo 2017, auspice la sezione dell’Anpi di cui nel frattempo ero divenuto presidente, fu inaugurato con tutti i crismi, all’angolo fra le vie Monte Nero e Fiume, il giardino Carlotta Enrico. Inviso al Grande gamberaio, il sindaco non partecipò alla cerimonia, delegando – ironia della sorte – un’assessora, il cui marito, nel 1997, aveva fermamente osteggiato la proposta d’intitolazione. Resta il fatto che la Carlotta – Enrico o Bessone, poco importa – meritava quella targa.

La città amata

Che dire? Così vanno le cose in quel lembo della pianura torinese, fra il rio Freidano e la Bealera nuova, dove le canicole estive infiammano gli animi e i rigori invernali non sono sufficienti a raffreddarli. Un luogo – e una comunità – che Franco ha sinceramente e intensamente amato. Poi, come ben sappiamo, «mors omnia solvit».

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