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Lo stiletto di Clio

Risaia amara

C'è stato un tempo in cui il riso si coltivava anche anche a Ivrea, Volpiano, Chivasso, Leinì, Settimo Torinese, Ciriè, Gassino, Venaria Reale, Caselle, Borgaro, Verolengo, San Mauro, Caluso, Strambino, Castellamonte e Valperga.

IN FOTO Doris Dowling in Riso amaro (1949).

IN FOTO Doris Dowling in Riso amaro (1949).

Uscì settantacinque anni fa, nel 1949, in un’Italia che auspicava di lasciarsi rapidamente alle spalle i traumi della guerra recentemente conclusasi, il film «Riso Amaro» del regista Giuseppe De Santis, con Silvana Mangano, Vittorio Gasman, Raf Vallone e la statunitense Doris Dowling, sorella minore della più famosa Constance di cui s’invaghirà Cesare Pavese.

Enorme fu il successo internazionale a cui non era estranea la formidabile carica sensuale della protagonista, la diciottenne Mangano, fiera e spregiudicata, con i pantaloncini, la maglietta attillata e le calze nere. Oggi, la pellicola figura al decimo posto, in ordine cronologico, fra i cento film che hanno contribuito a cambiare la memoria collettiva degli italiani.

Girato nel Vercellese, a Lignana (cascina Veneria) e Salasco (cascina Selve), il film narra una vicenda che sfiora il fumetto o il melodramma – come ha scritto recentemente Goffredo Fofi – pur prefiggendosi di denunciare le dure condizioni di vita nelle risaie, ma rielaborandole e spettacolarizzandole come nel cinema americano.

Si legge in una dettagliata relazione che risale al 1879: «La mondatura delle risaie [...] è pesante più forse d’ogni altra fatica» per donne e ragazze: «quel camminare tutti il giorno nell’acqua e nella mota fino al ginocchio, quello stare curve sull’acqua, dalla quale esala un tanfo insopportabile ad ogni erba che sradicano, riesce gravemente pesante».

Fra l’altro, quando fu girato «Riso amaro», la cascina Veneria apparteneva all’Ifi, l’Istituto finanziario industriale, ossia all’holding della famiglia Agnelli, mentre De Santis era comunista, al pari di Vallone che lavorava nella redazione torinese del quotidiano «l’Unità».

Il panorama della risaia, il cosiddetto mare a quadretti, ha sempre affascinato pittori e letterati. Basti pensare alle tele dell’alessandrino Angelo Morbelli (1853-1919), del monzese Pompeo Mariani (1857-1927), del mantovano Aldo Bergonzoni (1899-1976) e del torinese Gabriele Mucchi (1899-2002).

E che dire dell’irlandese James Joyce (1882-1941) che tracciò una sorta di ritratto surrealista della pianura vercellese, presentando una mondina intenta al proprio lavoro?

«Una risaia […] – scrisse – sotto una cremosa foschia estiva. Le falde spioventi del cappello ombreggiano il suo sorriso falso. Ombre rigano il suo volto falsamente sorridente, percosso dalla calda luce cremosa: ombre grigie color siero sotto le ossa della mascella, strisce di un giallo tuorlo d’uovo sul ciglio inumidito, umore giallo rancido nella polpa morbida degli occhi».

Intanto il pensiero corre al tempo in cui la risicoltura era assai diffusa anche nella zona di Settimo Torinese e negli immediati dintorni, come documentano le antiche carte d’archivio. Ricche di fontanili e di sorgenti d’acqua, le vaste aree semiacquitrinose ben si prestavano alla coltivazione del riso. Il toponimo Reisera nella borgata Fornacino e altri simili in Leinì e Mappano si ricollegano direttamente alle risaie del passato.

Poi cominciarono a susseguirsi i decreti delle pubbliche autorità per limitare l’espansione della preziosa ma problematica graminacea, specie nelle vicinanze dei centri abitati. All’epoca, infatti, si pensava che il riso, favorendo l’impaludamento del territorio, cagionasse malattie epidemiche e febbri mortali.

Nel 1628 un’ordinanza del duca Carlo Emanuele I di Savoia impose pesanti balzelli per la risicoltura in diversi comuni del Pinerolese, del Canavese e del Torinese, fra i quali Settimo e Leinì. Infine Carlo Emanuele II, nel 1667, proibì la coltivazione del riso in Settimo, Borgaro, Leinì, Caselle e Volpiano. Ma gli editti e i decreti furono a lungo disattesi.

Il 29 giugno 1869, infine, il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II, emanò un importante decreto che impediva di coltivare il riso a distanze inferiori ai cinque chilometri «da qualunque aggregato di abitazioni» e ai cinquanta metri «da ogni abitazione isolata».

L’elenco dei comuni interessati nei circondari di Torino e Ivrea è assai lungo. Comprende, fra gli altri, Volpiano, Chivasso, Leinì, Settimo Torinese, Ciriè, Gassino, Venaria Reale, Caselle, Borgaro, Verolengo, San Mauro, Caluso, Strambino, Castellamonte e Valperga.

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