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03 Settembre 2023 - 10:12
IN FOTO Nel 1943 il Mulino Nuovo di Settimo ospitava il presidio militare
L’annuncio dell’armistizio, radiotrasmesso agli italiani nella prima serata dell’8 settembre 1943, esattamente ottant’anni or sono, ebbe l’effetto di una notizia lungamente attesa.
Pochi, tuttavia, s’illusero che la fine delle ostilità significasse la pace.
IN FOTO Torino, bambini fra i palazzi devastati dai bombardamenti aerei
Davvero la guerra poteva ritenersi conclusa? E l’alleanza con la Germania? Come avrebbero reagito i tedeschi?
Nei giorni e nelle settimane che seguirono, grande fu lo slancio di generosità con cui tante famiglie, benché angustiate da gravissime difficoltà economiche, si prodigarono affinché i militari italiani in fuga potessero rifocillarsi e indossare abiti borghesi, sottraendosi alla cattura e alla deportazione. Per i contadini dei cascinali sparsi nelle campagne, ma anche per moltissime famiglie di operai e di artigiani delle città, il nuovo corso della storia italiana iniziò con un gesto di solidarietà e di fratellanza. Dal fondo degli armadi emersero vecchi capi di abbigliamento, calzature che lasciavano trasparire i segni di un uso troppo intenso, poveri vestiti spesso laceri e rattoppati, ma provvidenziali per coloro che dovevano assolutamente sbarazzarsi della divisa.
Il 10 settembre, i primi tedeschi furono segnalati a Chivasso, in giornata giunsero a Settimo, verso sera entrarono in Torino con pochi carri armati che brandeggiavano minacciosamente i cannoni.
Il generale Enrico Adami Rossi, comandante della piazza, si arrese senza opporre resistenza. Lo stesso giorno, un plotone di tedeschi piombò nel presidio militare del Mulino nuovo di Settimo: lo guidava una persona del luogo, Caio M. (omissis), che indossava una sahariana coi nastrini delle benemerenze fasciste.
I soldati italiani fecero appena in tempo a mettersi in salvo, fuggendo dalle finestre e abbandonando armi, munizioni e vestiario. Di lì a qualche ora, la gente accorse e s’impossessò di ogni cosa, dalle coperte alle calzature militari, dalle brande alle taniche di benzina, dagli zaini alle giberne. Gli abitanti della zona divelsero porte e finestre, asportarono il mobilio, prelevarono i più disparati generi di casermaggio e tutto quanto fu possibile reperire. Le divise grigioverdi, rivoltate e tinte alla buona nel paiolo di casa, si trasformarono in cappotti, mantelline e gonne.
L’occupazione tedesca fu all’origine dell’ennesima impennata dei prezzi che si tradusse in un nuovo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della popolazione civile. Il disordine nei rifornimenti e le razzie di merci destinate al Reich acuirono la miseria delle famiglie operaie, accrescendo l’odio per i nazisti e il disprezzo per i fascisti della Repubblica sociale, nata grazie al sostegno armato della Germania, ma disistimata dalle stesse autorità naziste. Sui muri di Settimo comparvero le prime scritte inneggianti a Roosevelt, Stalin e Churchill.
Alcuni militari meridionali, nell’impossibilità di raggiungere le proprie case a sud del fronte, preferirono rimanere a Settimo o negli immediati dintorni, cercando accoglienza in case di famiglie amiche.
Non trascorse molto tempo che due ragazze del paese – Giuseppina Cravero, impiegata comunale, e Bice Raspini, la figlia dell’ex sindaco socialista Luigi Raspini, costretto a dimettersi nell’ottobre 1922 e percosso dalle camicie nere – li misero in contatto col nascente movimento resistenziale.
Il siciliano Salvatore Lazzara, giovane sottotenente, venne accompagnato a Corio da Lucia Audi Donalisio della cascina San Giorgio. Fu così che alcuni degli ex soldati di stanza nel Mulino nuovo costituirono un gruppo di partigiani agli ordini dello stesso Lazzara, il quale scelse di chiamarsi Matteo. Diversi giovani del paese vi aderirono entusiasticamente, armandosi con le pistole e i moschetti recuperati nei giorni del caos generale. Cominciava la Resistenza.
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