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26 Maggio 2025 - 12:38
Heysel, 40 anni dopo: Platini rompe il silenzio tra dolore e memoria, “fa male pensare a quelle 39 persone che non tornarono più”
A Fiano, tra i green curatissimi del Royal Park I Roveri, Michel Platini ha un sorriso discreto. L’occasione è quella conviviale della Vialli e Mauro Golf Cup, evento benefico che da vent’anni riunisce ex campioni, artisti e imprenditori per raccogliere fondi. Ma proprio qui, a due passi da Torino, in un clima rilassato, la memoria è tornata violenta e ineludibile: tra tre giorni ricorrono i 40 anni dalla strage dell’Heysel, e Platini, suo malgrado, ne è simbolo involontario.
“Sono brutti ricordi, non ne parlo volentieri”, dice. E si capisce. Quel 29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, 39 tifosi persero la vita, schiacciati contro i muretti di un settore inadatto a ospitare una finale europea, prima del calcio d’inizio tra Juventus e Liverpool. Una partita che non si doveva giocare, una coppa alzata nel gelo dell’assurdo, un rigore trasformato proprio da lui, Le Roi, che oggi guarda indietro con occhi segnati: “Mi ha fatto davvero male pensare alle persone che erano venute per vederci e poi non sono tornate”.
Parole misurate, quasi sussurrate. Perché Platini non è mai stato a suo agio con quella coppa, nonostante fosse l’apice della carriera juventina. “Fuori, la gente moriva. Dentro, noi giocavamo. Non sapevamo nulla. Non potevamo capire” ha detto in passato. Quarant’anni dopo, la ferita resta. E ogni tentativo di parlare solo di sport naufraga nel ricordo di quei corpi stesi sui gradoni, delle bandiere usate per coprire i morti, del silenzio pesante che precedette un calcio d’inizio surreale.
Michel Platini
Oggi, mentre la Juve festeggia un quarto posto utile per la Champions e si vocifera di un ritorno di Antonio Conte in panchina, Platini preferisce rimanere distaccato: “Non voglio mischiarmi, anche se è una figura importante per la Juve. Ma sono i giocatori a fare grandi le squadre, non gli allenatori”. Una frase che sa tanto di rifiuto del teatrino mediatico, tipica di un uomo che, da dirigente UEFA, ha conosciuto le luci e le ombre del calcio-business.
Quanto alla sua Juventus, non nasconde una certa soddisfazione: “Se non si può vincere, l’importante è non perdere. E qualificarsi alla Champions è importante, soprattutto a livello economico”. Parole concrete, senza enfasi, dette da chi conosce bene i bilanci, oltre che le emozioni.
Quando qualcuno gli chiede se potrebbe mai tornare alla Juve, magari in un ruolo dirigenziale, Platini chiude la porta con eleganza: “Nessuno mi ha chiamato. E se nessuno ti chiama, non puoi nemmeno pensare di tornare. Ma sono onorato che dopo 40 anni si pensi ancora a me”.
La sua attenzione, intanto, va alla finale di Champions di sabato: “Non vedo l’Inter dal 2010, ma ho visto un bel PSG con Luis Enrique. Capirete per chi farò il tifo… sono francese”.
Eppure, qualsiasi discorso, anche quelli più leggeri, ricade su quella notte nera del calcio europeo. Perché Heysel è una cicatrice collettiva, e Platini, nel bene e nel male, ne è rimasto per sempre dentro. Quarant’anni dopo, lo sport ha cambiato faccia, ma quel dolore resta intatto. E se anche Le Roi stenta a parlarne, è perché certe tragedie non si spiegano: si sopportano, si ricordano, si portano addosso.
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