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Cronaca

Minacce in ospedale dopo la morte del compagno: condannata a nove mesi, escluso il tentato omicidio

Il tribunale di Torino riconosce solo la minaccia aggravata: la Procura chiedeva sette anni, ma i giudici ricostruiscono la vicenda tra alcol, disperazione e una corsa interrotta verso la Terapia intensiva di Chieri

Minacce in ospedale dopo la morte del compagno: condannata a nove mesi, escluso il tentato omicidio

Minacce in ospedale dopo la morte del compagno: condannata a nove mesi, escluso il tentato omicidio (immagine di repertorio)

La notte del 26 aprile, nei corridoi dell’ospedale di Chieri, si era respirata una tensione che aveva sfiorato la tragedia. Una donna di 42 anni, sconvolta dalla morte improvvisa del compagno, si era presentata nuovamente in reparto impugnando un coltello. Oggi, a distanza di sette mesi, il tribunale di Torino ha messo un punto fermo sulla ricostruzione giudiziaria: niente tentato omicidio, ma una condanna a nove mesi per minaccia aggravata. La Procura ne aveva chiesti sette di anni, convinta che la donna avesse voluto colpire qualcuno del personale sanitario. I giudici non hanno condiviso quella lettura.

Secondo gli atti, la donna era stata fermata quando mancavano circa dieci metri all’ingresso della Terapia intensiva, la stessa dove poche ore prima le era stato comunicato il decesso dell’uomo con cui aveva condiviso vent’anni di vita. Nel momento della notizia aveva reagito in modo scomposto, rivolgendosi ai medici con la frase: «Tu non sai con chi hai a che fare». Uno sfogo, poi amplificato dal contesto: la donna aveva problemi legati al consumo di alcol, come ha spiegato in aula il suo difensore, l’avvocato Domenico Peila.

La scena che ha portato all’intervento delle forze dell’ordine è stata ricostruita da una testimone, che quella stessa sera l’aveva vista in strada mentre «vaneggiava ad alta voce io lo ammazzo», stringendo un coltello. È stato però accertato che la donna fosse in stato di ubriachezza avanzata, al punto da non ricordare, nei giorni successivi, nemmeno in quale bar avesse cercato riparo.

Il compagno, trasportato in ospedale con una epicardite cronica, era arrivato in condizioni ormai compromesse. I medici hanno raccontato di averlo visto rifiutare più volte il ricovero in passato, sottolineando che la sua situazione clinica, quella sera, fosse già gravissima e non reversibile. Elementi che hanno pesato sulla valutazione della dinamica emotiva e psicologica della donna, precipitata in poche ore in un vortice di perdita e disorientamento.

Durante la requisitoria, il rappresentante della Procura ha insistito sulla tesi di una scelta consapevole: «Per quanto da inserire nella esasperazione e nella disperazione del momento, l’atteggiamento della donna era lucido. Dove aveva preso il coltello? Non credo nel bar dove era andata a bere: credo invece che sia rientrata a casa. Se tutto fosse andato come previsto il reato sarebbe stato portato a termine». Una ricostruzione severa, accompagnata dalla richiesta della pena minima per il tentato omicidio, «data la tragicità della situazione».

L’avvocato Peila ha invece sostenuto con decisione la mancanza dell’elemento volontario: «Ritengo che si sia trattato di perdita di controllo, non di volontà di uccidere. Era così ubriaca da non ricordare nemmeno i suoi spostamenti. E ha detto chiaramente: per me dopo la morte del mio compagno era finito tutto. Non c'è nessuna prova che intendesse aggredire qualcuno. Non si può nemmeno escludere che quel coltello fosse rivolto contro se stessa».

Il tribunale ha scelto la strada più prudente: esclusa la ricostruzione della Procura, la donna è stata condannata per minaccia aggravata, un reato grave ma lontano dalle ombre del tentato omicidio. Una sentenza che riconosce la necessità di valutare il contesto, il livello di coscienza alterato e l’assenza di prove che indichino un progetto di aggressione concreta verso i medici del reparto.

Resta il peso umano di una vicenda segnata dal dolore, dall’alcol e da una notte in cui la disperazione di una donna ha rischiato di trasformarsi in tragedia. Oggi, la giustizia ha scelto di leggere quei gesti attraverso una lente meno severa, restituendo alla storia il suo perimetro reale: un gesto pericoloso, sì, ma nato più dal crollo emotivo che da un intento omicida.

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