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Cronaca
13 Novembre 2025 - 10:31
Killer di Cadrezzate, la fuga è finita: arrestato poco distante dalla "casa del sangue"
Elia Del Grande, 52 anni, il killer della strage di Cadrezzate, è stato rintracciato e arrestato nel paese dove tutto cominciò. La sua fuga, iniziata il primo novembre dalla casa-lavoro di Castelfranco Emilia, si è chiusa a pochi chilometri dalla villetta rosa che i vicini chiamano ancora “la casa del sangue”. Un cerchio che si richiude e che riapre le stesse domande di allora: chi è davvero quest’uomo? E cosa ci dice la sua storia sul nostro modo di amministrare la giustizia?
Del Grande non è fuggito d’impulso. Ha scavalcato un muro di tre metri, legato una corda a un palo di sorveglianza, calcolato turni e punti ciechi. Un piano preparato nel silenzio, con la calma feroce di chi conosce la logica delle gabbie. Era arrivato a Castelfranco dopo anni di misure alternative e una libertà vigilata durata meno di un soffio. Nel 2023 aveva lasciato il carcere dopo 26 anni e 4 mesi, con una sentenza che aveva trasformato l’ergastolo in trent’anni grazie alla seminfermità mentale riconosciuta dai giudici. Ma la sua parabola, invece che aprirsi, si era richiusa: un magistrato di sorveglianza lo aveva dichiarato ancora “socialmente pericoloso”, ordinandone il trasferimento in una casa-lavoro. Per lui, una condanna bis. Per lo Stato, una necessità. Per tutti, una bomba inesplosa.
La fuga è stata anche un messaggio. Nei giorni della latitanza Del Grande ha scritto una lunga lettera a VareseNews, un testo pieno di rancore, di autoassoluzioni e frasi appuntite: «Avevo ripreso in mano la mia vita», «le case-lavoro sono carceri mascherate», «in Italia si punisce per sempre».
È il manifesto di un uomo che rifiuta la memoria collettiva che lo accompagna da quell’inverno del 1998, quando sterminò il padre, la madre e il fratello perché osteggiavano la sua relazione con una donna dominicana. Tre fucilate, tre cadaveri, una fuga verso la Svizzera durata poche ore. Un triplice omicidio che non è mai uscito dal vocabolario del lago Maggiore.
In questa latitanza, durata una manciata di giorni, Del Grande ha provato a ricostruire una storia diversa, più indulgente verso se stesso: l’uomo cambiato, il lavoratore reintegrato, il fidanzato devoto. Ha perfino riattivato un profilo Facebook, due foto e un post contro la magistratura, come se il mondo fosse un tribunale da convincere. E accanto a lui c’era la compagna, la stessa che nel 2015 aveva già tentato di aiutarlo in un’evasione da Pavia. Una fedeltà che gli inquirenti leggono come un pezzo del piano.
Ma la realtà, alla fine, lo ha riportato da dove era fuggito. I carabinieri lo hanno trovato a Cadrezzate, tra le stesse strade che una volta attraversò con un fucile ancora caldo. Una presenza che ha gelato il sangue degli abitanti. Per giorni la zona è stata pattugliata giorno e notte, tra boschi, agriturismi e case sfitte. Le segnalazioni correvano da un gruppo WhatsApp all’altro: «L’ho visto in bici», «era ad Angera», «passeggiava vicino al lago». Nessuna certezza, solo paura. Una paura antica, quella che si attacca ai muri e non se ne va.
Dietro l’arresto c’è una questione che lo Stato rimanda da decenni: cosa fare degli internati giudicati ancora pericolosi dopo aver scontato la pena? Le Rems non bastano, le case-lavoro sono luoghi sospesi tra carcere e libertà, e il sistema penitenziario usa strumenti nati nel codice Rocco per governare situazioni che non sa più classificare. Non è un caso se gli avvocati della Camera Penale di Modena hanno parlato di «residui punitivi» e «percorsi di reinserimento inesistenti». Non è nemmeno un caso se il sindacato Sappe invoca un ritorno a strutture che il Paese ha superato solo sulla carta.
In mezzo, c’è la storia di Del Grande: un uomo che ha pagato la pena, ma che la società non è mai riuscita a ricollocare. Né dentro né fuori. Una zona grigia del diritto che ha prodotto esattamente ciò che temeva: una fuga. Una protesta. Una sfida. E, per qualcuno, un fantasma tornato dal passato.
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