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Sterminò la famiglia, ora è in fuga: caccia al killer in tutta la pianura Padana

Dopo 26 anni di carcere, Elia Del Grande evade e scrive una lettera contro lo Stato

Elia Del Grande all'epoca dell'arresto

Elia Del Grande all'epoca dell'arresto

Fuggito nel cuore della notte, con la freddezza di chi conosce ogni cancello, ogni abitudine, ogni telecamera. Elia Del Grande, il killer della strage di Cadrezzate, oggi 52 anni, è evaso dalla casa-lavoro di Castelfranco Emilia. È passato da un muro alto tre metri, legando una corda a un palo di sorveglianza e scomparendo nel buio. Da allora – una settimana fa – mezza Pianura Padana vive con il fiato sospeso. Lo cercano in provincia di Varese, dove pare si nasconda. Con lui, secondo gli inquirenti, ci sarebbe la compagna convivente, la stessa che nel 2015 aveva già tentato di aiutarlo in un’evasione poi fallita dal carcere di Pavia.

Ma questa volta l’evasione è riuscita. E Del Grande, che nel 1998 massacrò a fucilate il padre, la madre e il fratello, ha scelto di tornare proprio dove tutto era cominciato: Cadrezzate, la villetta rosa del lago Maggiore che ancora oggi i vicini ricordano come “la casa del sangue”.

In quella notte di gennaio del ’98, in piena campagna varesina, Del Grande sterminò la sua famiglia. Tre fucilate, tre vite distrutte, un movente che lui stesso definì “d’amore e rabbia”: i genitori e il fratello non accettavano la sua relazione con una ex prostituta dominicana che voleva sposare. Dopo il massacro tentò la fuga verso la Svizzera, fu bloccato al confine e confessò. Condannato a trent’anni per vizio parziale di mente, ne scontò ventisei. Uscì nel 2023 con una libertà vigilata che durò poco: a settembre 2025 il magistrato di sorveglianza lo ritenne ancora “socialmente pericoloso”, ordinandone il trasferimento in una casa-lavoro. Da lì è scappato.

"Avevo ripreso in mano la mia vita"

La sua lettera, inviata al quotidiano Varese News e pubblicata integralmente, è il manifesto del suo rancore contro lo Stato. “Avevo ripreso in mano la mia vita, ottenendo con sacrificio un lavoro, una compagna, un equilibrio – scrive – ma un magistrato ha deciso di rinchiudermi ancora. Le case-lavoro sono carceri mascherate, strumenti repressivi che non riabilitano nessuno”.
Nel testo, denso di risentimento e parole taglienti, Del Grande accusa il sistema penitenziario di ipocrisia: “Non esiste reinserimento, non esiste lavoro. Solo proroghe di sei mesi che diventano anni. L’Italia è l’unico Paese europeo che ancora adotta queste misure di sicurezza fasciste”.

È la voce di un uomo che non accetta la memoria collettiva che lo definisce “il killer di Cadrezzate”. “Ho scontato la mia pena, ma per tutti resterò sempre il pazzo assassino. In questo Paese puoi pagare, ma non essere mai libero”.
Dietro quella prosa amara c’è il tentativo di giustificare l’ingiustificabile: l’evasione di un condannato per triplice omicidio. Ma c’è anche il sintomo di un cortocircuito tra giustizia, salute mentale e società, un punto cieco che oggi preoccupa anche gli addetti ai lavori.

Elia Del Grande oggi con la compagna in una foto postata sui loro profili social qualche giorno fa

Mezza Italia in allerta

Le forze dell’ordine hanno diffuso l’allerta in mezza Italia. Carabinieri, polizia penitenziaria e investigatori di Varese e Modena hanno battuto boschi, agriturismi, campeggi, casolari abbandonati. Nessuna traccia. Ma una certezza: Del Grande si muove con cautela, conosce i luoghi, ha un telefono cellulare che avrebbe fatto entrare di nascosto nella casa-lavoro e poi nascosto nei campi in attesa del momento giusto.
Gli inquirenti lo ritengono lucido, organizzato e pronto a restare invisibile per settimane. “Ha pianificato tutto – spiegano –. Sapeva che la struttura aveva punti ciechi. E sapeva che il cambio di turno notturno è il momento più vulnerabile”.

La compagna, dicono, lo avrebbe raggiunto poco prima della fuga. Sui social, le loro foto insieme – abbracci, cuoricini, “my daily” – raccontano una quotidianità costruita sul margine dell’abisso. Dopo la fuga, il profilo Facebook di Del Grande è comparso improvvisamente online: quattro amici, due foto (un lago al tramonto e un tatuaggio a forma di farfalla), e un post in cui ribadisce la sua rabbia contro la magistratura. Un messaggio di sfida, ma anche di autoassoluzione: “Chi non scapperebbe da una decisione che ti riporta indietro e ti fa sentire una persona sbagliata?”.

Gli investigatori non lo dicono apertamente, ma temono che dietro la fuga non ci sia solo la disperazione. Potrebbe esserci un disegno più ampio: un ritorno simbolico nei luoghi del delitto, quasi una riconquista del passato. Per questo la zona di Cadrezzate è sorvegliata giorno e notte.

Un dibattito mai chiuso

Nel frattempo, la lettera del killer ha riacceso un dibattito mai chiuso: cosa sono oggi le case-lavoro? Strumenti di reinserimento o residui punitivi del codice Rocco?
Gli avvocati della Camera Penale “Carl’Alberto Perroux” di Modena hanno preso posizione contro la narrazione del sindacato Sappe, che invoca un ritorno ai vecchi Ospedali Psichiatrici Giudiziari. “Non possiamo rispondere alla fuga con nostalgia per strutture disumane – scrivono –. Il superamento degli Opg è stata una conquista civile. Ma servono più Rems, più assistenza psichiatrica, più percorsi reali di reinserimento. Non basta rinchiudere chi non si sa dove mettere”.

Dietro la cronaca, si muove un vuoto strutturale: le Rems sono poche, i posti ancora meno, e molti ex detenuti giudicati socialmente pericolosi finiscono nelle case-lavoro, una terra di nessuno tra carcere e libertà. È lì che si incaglia la vicenda Del Grande: un uomo che ha finito di scontare la pena, ma che la società non sa dove collocare. Né dentro né fuori.

Il risultato è questa fuga, metà protesta e metà vendetta, che ha riaperto le paure del Nord Italia. A Varese, Gallarate, Sesto Calende, le chat di quartiere si riempiono di segnalazioni: “L’ho visto in bicicletta”, “era al bar di Angera”, “camminava vicino al lago”. I carabinieri smentiscono ogni avvistamento, ma l’ansia corre più veloce delle smentite.
La paura è una memoria che non si spegne mai. Soprattutto quando il passato ha il volto di chi un tempo ha ucciso in casa propria.

E ora?

Chi conosce Del Grande racconta che, dopo la scarcerazione, aveva davvero tentato di cambiare vita. Lavorava in un’azienda del Nord Italia, pagava l’affitto, frequentava la stessa donna che ora è fuggita con lui. Ma qualcosa si è incrinato. Forse un controllo di routine, forse un episodio mal interpretato. Il magistrato di sorveglianza, alla luce di precedenti comportamenti “disturbanti” avuti in Sardegna – piccoli furti, discussioni con vicini, un referto medico – ne ha disposto il rientro in struttura.
“Un passo indietro che lui ha vissuto come una condanna a vita”, spiegano fonti vicine al dossier. Da lì, il crollo.

Oggi Elia Del Grande non è più un detenuto in senso tecnico, ma un “internato in fuga”, e la sua condizione giuridica è paradossale. Non può essere ricercato come un evaso in senso stretto, ma nemmeno come un cittadino libero. Può essere fermato, ma non c’è un mandato d’arresto classico. È la zona grigia del diritto che si apre quando le misure di sicurezza restano sospese tra codice e coscienza.

La domanda che attraversa ora le redazioni, i tribunali, le questure è semplice e inquietante: cosa succede quando uno Stato non sa più dove collocare i propri mostri?
La vicenda di Del Grande diventa così il simbolo di un cortocircuito che riguarda molti altri internati: persone che hanno scontato la pena ma vengono trattenute per “pericolosità sociale”. Una definizione elastica, spesso affidata a perizie contrastanti e a strutture che – come ammettono gli stessi sindacati di polizia – non hanno né risorse né personale per garantire percorsi di cura veri.

Intanto, la caccia continua. Nelle ultime ore, droni e unità cinofile hanno perlustrato i boschi tra Vergiate e Ispra, ma la nebbia di novembre e la fitta rete di strade rurali rendono le ricerche difficilissime. Alcuni ipotizzano che Del Grande possa aver trovato rifugio in una casa diroccata o in un alloggio di fortuna, forse aiutato da qualcuno che non sa chi è davvero.
Il suo profilo Facebook, aperto ieri, potrebbe essere un modo per far sapere che è vivo – e, insieme, per confondere le acque. Le foto, scelte con cura: un lago e una farfalla. Simboli di libertà, ma anche di ritorno.

A Modena, la casa-lavoro da cui è evaso è sotto inchiesta. “Ha agito con premeditazione – dicono gli inquirenti –. Aveva preparato la fuga da settimane”. Nelle sue lettere, Del Grande parla di una “decisione senza scrupolo” che gli avrebbe “distrutto tutto ciò che aveva ricostruito”. Un linguaggio quasi politico, come se la fuga fosse una forma di protesta sociale, una ribellione contro un sistema che definisce “repressivo, ipocrita e cieco”.

Ma dietro quelle parole, resta un fatto: un uomo che ha ucciso la propria famiglia è tornato libero, armato solo della sua rabbia. E questo basta a far paura.

In paese, i vecchi abitanti di Cadrezzate ricordano ancora quella notte. “Ci svegliò un rumore sordo, come petardi – racconta una vicina – poi le sirene, i fari, il sangue”. Da allora la casa è stata affittata e ristrutturata, ma resta un simbolo di un male che non se ne va. Ora il ritorno del killer riapre ferite mai rimarginate.

I sindaci dei comuni del Varesotto hanno chiesto di rafforzare i controlli nelle aree isolate e nei campeggi. “Non possiamo escludere che sia armato”, ha detto il comandante provinciale dei carabinieri. Anche perché Del Grande è abituato alle armi: con un fucile iniziò e, nel suo linguaggio disturbato, il fucile resta un simbolo di potere.

La paura attraversa anche Modena, dove il caso ha riacceso la polemica sulle falle del sistema. “Com’è possibile che un internato socialmente pericoloso possa evadere con una corda e sparire per giorni senza lasciare traccia?”, chiedono i sindacati di polizia penitenziaria.

La risposta, come sempre, è un misto di carenza di personale, tagli, e strutture obsolete. Castelfranco Emilia è una casa-lavoro con 80 internati e 50 agenti, molti dei quali precari. Nessuna telecamera termica, nessun sistema anti-scavalcamento. Solo cancelli, orari e turni. “Un fortino del passato – dice un agente – dove si spera che nulla accada. Finché accade”.

E ora, cosa accadrà? Del Grande potrebbe cercare di espatriare, ma è difficile che riesca: il suo nome è segnalato in tutti i valichi. Più probabile che resti nascosto nel Varesotto, in attesa di una nuova mossa, forse un’intervista, forse un video. In passato ha già scritto ai giornali per rivendicare la propria “nuova vita”. Non è escluso che lo faccia di nuovo.
Il suo racconto – una miscela di rancore, autodifesa e manipolazione – ha trovato spazio tra chi vede nelle case-lavoro una vergogna di Stato. Ma nessuna ingiustizia può cancellare il sangue di tre familiari uccisi a bruciapelo.

Ecco il paradosso di questa fuga: un uomo che dice di essere cambiato, ma sceglie ancora la violenza come unica lingua.
Il Nord Italia guarda ai notiziari con una domanda che non si può formulare ad alta voce: e se tornasse davvero, in quella casa sul lago?

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