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Cronaca

Italiani a Sarajevo per “divertirsi” a sparare sui civili: al via l'inchiesta sui “cecchini del weekend”

Il pm Gobbis indaga su un capitolo oscuro della guerra nei Balcani: simpatizzanti neofascisti partivano dall’Italia pagando per partecipare all’assedio della città bosniaca

Italiani a Sarajevo

Italiani a Sarajevo per “divertirsi” a sparare sui civili: al via l'inchiesta sui “cecchini del weekend”

Un viaggio verso la guerra, non per combattere, ma per “divertirsi”. È l’orrore che emerge dall’inchiesta aperta dalla Procura di Milano sui cosiddetti “cecchini del weekend”, italiani che tra il 1993 e il 1995 avrebbero partecipato all’assedio di Sarajevo, sparando contro civili inermi in cambio di denaro e di adrenalina.

Un’indagine che riporta alla luce una pagina ancora più nera della guerra in Bosnia: quella di uomini che partivano dal Nord Italia — Trieste come punto di raccolta, secondo le prime testimonianze — e pagavano “ingenti somme” ai miliziani serbo-bosniaci di Radovan Karadzic per poter impugnare un fucile e prendere parte alla caccia umana che, per quasi quattro anni, trasformò la capitale bosniaca in un inferno quotidiano.

Il pm Alessandro Gobbis ha aperto un fascicolo per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai motivi abbietti. Al momento il procedimento è a carico di ignoti, ma gli inquirenti contano di individuare nomi e ruoli grazie alle testimonianze e ai dossier già raccolti. L’inchiesta nasce da un esposto del giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni, con la collaborazione degli avvocati Guido Salvini, ex magistrato noto per le indagini su Piazza Fontana, e di un secondo legale milanese.

Secondo le ricostruzioni, questi “turisti della guerra” erano in gran parte simpatizzanti di estrema destra, appassionati di armi e conflitti, che avrebbero versato migliaia di euro — all’epoca milioni di lire — per unirsi alle milizie serbe e sparare dai rilievi attorno alla città. Sarajevo, tra il 1992 e il 1995, fu teatro di un assedio tra i più lunghi e sanguinosi del XX secolo: oltre 11.000 morti, tra cui più di 1.500 bambini.

Nel fascicolo della Procura è confluita anche una relazione inviata dall’ex sindaca di Sarajevo, Benjamina Karic, che ha definito questi individui “ricchi stranieri amanti di imprese disumane”. Secondo la documentazione fornita, non si trattava solo di italiani, ma anche di cittadini di altri Paesi europei, attratti dal richiamo morboso del conflitto.

Le indagini sono complesse, perché i fatti risalgono a oltre trent’anni fa e coinvolgono contesti internazionali. Ma per gli inquirenti, il tempo non cancella la responsabilità morale e penale di chi ha scelto di trasformare la guerra in una forma di turismo letale.

Gavazzeni, autore di numerosi lavori sulla memoria dei Balcani, ha dichiarato che “l’obiettivo è rompere il silenzio su una vicenda di cui si è sempre sussurrato, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di indagare davvero”. Le prove raccolte — documenti, testimonianze, lettere — convergono su un dato inquietante: i “cecchini italiani” non erano mercenari, ma volontari del sadismo, mossi dal desiderio di provare il brivido della morte altrui.

L’inchiesta milanese, che potrebbe presto aprirsi a collaborazioni con la magistratura bosniaca, tenta di fare luce su un crimine rimasto sepolto sotto la polvere degli anni e della vergogna. Sarajevo, città simbolo della convivenza infranta, torna così a chiedere giustizia per le sue vittime — anche per quelle cadute sotto colpi partiti da mani italiane.

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