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L'Unione fa la forza

Gaza: finché ci sarà occupazione, ci sarà Resistenza

Nel manifesto che divide la sinistra, si rivendica il diritto del popolo palestinese a resistere contro l’occupazione. “La Resistenza non si insegna, accade. E quando accade, esplode”. Tra accuse di ipocrisia occidentale e richiami all’ONU, un testo che scuote coscienze e certezze

Gaza: finché ci sarà occupazione, ci sarà Resistenza

Gaza: finché ci sarà occupazione, ci sarà Resistenza

Ci si scandalizza se qualcuno osa usare il termine Resistenza riferendosi ad Hamas e al popolo palestinese.
Bene, io da uomo di sinistra provo, ogni giorno di più, una profonda amarezza quando sento qualcuno spiegare come si dovrebbe fare la Resistenza a Gaza. Come se la Resistenza avesse bisogno di istruzioni.

La Resistenza di un popolo non si fa sul tavolino di casa nostra, tra un post indignato e un caffè tiepido.
La Resistenza non ha tovaglie pulite né mani profumate. È sangue, terra, macerie. Non è opinione. È necessità. È istinto di sopravvivenza.
La Resistenza è sempre sentimento e rivolta. Non per vocazione, ma per destino di chi non ha altra scelta che resistere o scomparire.

Mi chiedo: come la vorreste, voi, la Resistenza palestinese?
Ci sono compagni che fanno parte o si definiscono di sinistra – e questo fa ancora più male – che dicono che la Resistenza senza lotta di classe è borghese. Nazionalismo reazionario.
La lotta di classe è fondamentale, sacrosanta, lo sappiamo. Ma sotto l’occupazione, la prima classe che si difende è quella dei vivi contro i morti.

Quando ti radono al suolo la casa, quando ti bruciano i campi, quando ti strappano i figli, la linea di demarcazione non è tra borghese e proletario, ma tra chi resiste e chi annienta.
La Resistenza non chiede permesso a nessuna scuola di pensiero. Nasce dalle viscere, e quando esplode non ha bisogno di essere approvata, ma solo riconosciuta.
Perché la Resistenza vera non vuole piacere. Vuole vivere. Vuole vincere.

Ci sono quelli che dicono: se tocchi i civili non è più Resistenza, è terrorismo.
La Resistenza non è mai – sotto qualsiasi latitudine – pulita, chirurgica, diplomatica. Non si fa in divisa e guanti bianchi.
E ogni volta che l’oppressore uccide i tuoi figli, la distinzione tra civili e militari implode.

Chi giudica la Resistenza dall’alto del proprio ordine morale dimentica che non si può condannare una risposta senza prima nominare l’offesa.
Non è il fiume a essere violento quando rompe gli argini, ma l’argine che pretende di fermarlo per sempre.

 

Come la vorreste la Resistenza? Educata, composta, con orari d’ufficio? Che si faccia massacrare con decoro? Una Resistenza che muore bene, magari in ordine alfabetico?

Al fondo, vorrei tanto sbagliarmi.
Ma temo che, dietro certi sguardi professorali sulla Resistenza, si nasconda la presunzione di chi pensa di sapere come si debba combattere, come si debba morire. Ma senza aver mai sentito sparare un colpo.


La Resistenza non si insegna. Non ha maestri, non li cerca, non li vuole.
Non si giustifica davanti a nessun tribunale morale. La Resistenza accade.
E quando accade – quando deve accadere – non chiede permesso. Scoppia. Esplode come deve esplodere.

Ogni Resistenza ha tre soluzioni: la mia soluzione, la tua soluzione, e la soluzione giusta.
Quella che si conquista sul campo.

Hamas, quindi, cos’è se non Resistenza?
Cos’è se non è il prodotto diretto dell’occupazione?
Come si può parlare di terrorismo ignorando il contesto della colonizzazione?

La stessa Risoluzione 37/43 dell’ONU del 1982 riconosce ai popoli sotto dominazione straniera il diritto di resistere con tutti i mezzi disponibili, inclusa la lotta armata.
La violenza in quel pezzo di mondo non è iniziata con Hamas ma con la colonizzazione.
Finché esisterà l’occupazione, esisterà anche la Resistenza.

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