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Cronaca

Tragedia del Mottarone: 4 anni e 11 mesi di carcere ad Enrico Perocchio, della Leitner di Leini

Era direttore d’esercizio della funivia al momento della tragedia. Ha patteggiato la pena così come gli altri due imputati andati a giudizio

Mottarone, tre patteggiamenti e due proscioglimenti. I familiari: "Vite svalutate"

Mottarone, tre patteggiamenti e due proscioglimenti. I familiari: "Vite svalutate" (immagine di repertorio: l'incidente)

Il 18 settembre la vicenda giudiziaria della tragedia del Mottarone compie un passo che ha già sollevato polemiche e amarezza. Non siamo a una sentenza definitiva: il procedimento si è fermato all’udienza preliminare, davanti al GUP di Verbania, Gianni Macchioni, che ha accolto i patteggiamenti per tre imputati e disposto il proscioglimento per altri due. In termini pratici, non ci sarà un dibattimento pubblico, non verranno ascoltati testimoni, non si entrerà nel merito in un’aula di tribunale: il processo si chiude qui, almeno per loro.

Sono stati accolti i patteggiamenti a 3 anni e 10 mesi di Luigi Nerini, titolare della Ferrovia del Mottarone, a 4 anni e 11 mesi di Enrico Perocchio, direttore d’esercizio, e a 4 anni e 5 mesi di Gabriele Tadini, capo servizio. Nessuno di loro finirà in carcere. Allo stesso tempo, il GUP ha disposto il proscioglimento di Martin Leitner e di Peter Rabanser, vertici della società altoatesina che aveva realizzato e seguito la manutenzione dell’impianto.

Una decisione che ha scosso i familiari delle vittime. Vincenza Minutella, madre di Silvia Malnati, una delle 14 persone morte il 23 maggio 2021, ha pronunciato poche parole all’uscita dall’aula: “Questo è il valore che danno alla vita delle persone”. Parole dure, che esprimono il senso di giustizia mancata avvertito da chi, in quella tragedia, ha perso figli, fratelli, amici.

La tragedia del 23 maggio 2021

Era il 23 maggio 2021, una domenica di sole, quando la cabina numero 3 della funivia Stresa–Mottarone precipitò a pochi metri dall’arrivo della stazione di monte. Erano circa le 12.30: la rottura improvvisa della fune traente, che trascinava la cabina lungo il percorso, fece piombare il mezzo nel vuoto per oltre venti metri. L’impianto era privo di freni d’emergenza perché, come accertarono subito gli investigatori, erano stati inseriti i cosiddetti “forchettoni”, dispositivi che bloccavano il sistema automatico di arresto per evitare continui blocchi dovuti a guasti precedenti.

Il bilancio fu devastante: 14 persone persero la vita. Famiglie intere vennero spazzate via in pochi istanti. Tra le vittime, la famiglia israeliana Biran, residente a Pavia: morirono i genitori Amit e Tal, con il piccolo Tom di due anni e i nonni arrivati da Israele. Persero la vita anche cinque componenti della famiglia Malnati, originari della Lombardia, e la giovane coppia formata da Serena Cosentino, ricercatrice calabrese, e dal fidanzato iraniano Mohammadreza Shahaisavandi. Tra i morti anche Elisabetta Persanini e il marito Michelangelo Scarpetta con il figlioletto, oltre ad altre vittime italiane che quel giorno avevano scelto la gita sul lago Maggiore.

L’unico sopravvissuto fu Eitan Biran, cinque anni, estratto vivo dalle lamiere dai soccorritori del 118. Gravemente ferito, trascorse settimane in ospedale e divenne il simbolo di una tragedia che sconvolse l’Italia intera. La sua vicenda personale si intrecciò poi con una lunga battaglia legale sulla custodia, tra i familiari in Italia e i parenti rimasti in Israele.

Le indagini chiarirono che non si era trattato di una fatalità. Oltre al cedimento del cavo, il fatto che i freni fossero stati bloccati manualmente trasformò l’incidente in una strage annunciata, con responsabilità precise affidate alla gestione dell’impianto e ai controlli di sicurezza mancati.

Oggi, a più di quattro anni di distanza, il processo cerca di fare luce fino in fondo su quelle responsabilità, mentre il ricordo delle 14 vite spezzate resta indelebile nelle cronache e nelle coscienze.

L’inchiesta e il ruolo degli imputati

La Procura di Verbania mise sotto accusa il titolare dell’impianto, i responsabili tecnici e, in un secondo momento, anche i vertici della Leitner, la società che aveva curato la costruzione e la manutenzione.

Il primo a confessare fu Gabriele Tadini, capo servizio, che ammise di aver installato i forchettoni e di averli lasciati anche nei giorni precedenti l’incidente. Le sue dichiarazioni chiamarono in causa i superiori e alimentarono l’ipotesi di un comportamento sistematico, tollerato se non addirittura imposto.

Da qui la richiesta di rinvio a giudizio per tutti gli indagati. Ma con i patteggiamenti accolti e i due proscioglimenti disposti dal GUP, il dibattito processuale non si aprirà mai. Per i familiari delle vittime, che chiedevano verità e trasparenza, resta così un vuoto difficile da colmare.

Il patteggiamento è uno strumento previsto dall’ordinamento italiano: l’imputato ammette la responsabilità, ottiene una pena ridotta e chiude la partita senza affrontare il processo. Una soluzione che consente di alleggerire il carico giudiziario, ma che in casi come questo rischia di apparire come uno sconto insopportabile.

Il fatto che nessuno dei tre imputati finirà in carcere, e che due manager della Leitner siano stati prosciolti, ha sollevato reazioni indignate. La frase di Vincenza Minutella sintetizza un sentimento diffuso: l’idea che il valore della vita delle 14 vittime sia stato ridotto a una manciata di anni, per di più da scontare senza reclusione.

Per le comunità coinvolte, da Stresa a Verbania, fino alle famiglie che hanno perso i loro cari, resta la sensazione che la giustizia si sia fermata troppo presto.

La decisione del GUP chiude formalmente il procedimento penale, ma non mette fine al dolore. Ogni anno, sul Mottarone, le commemorazioni ricordano i nomi delle vittime: famiglie intere spazzate via, bambini e adulti che quel giorno cercavano solo un momento di svago.

La chiusura anticipata del processo lascia aperte molte domande: sulla sicurezza degli impianti in Italia, sulla gestione delle infrastrutture turistiche, sull’opportunità di sacrificare la manutenzione in nome dei profitti. Domande che non avranno risposta in un’aula di tribunale.

Il Mottarone resta così un simbolo di negligenza trasformata in catastrofe. La decisione dell’udienza preliminare non è definitiva sul piano morale: resta la ferita, resta il ricordo, resta la percezione di una giustizia che, fermandosi al GUP, non ha potuto dispiegarsi in tutta la sua forza. E per i familiari delle vittime, quelle 14 vite restano la misura di una tragedia che nessun patteggiamento potrà mai bilanciare.

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