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Cronaca
16 Settembre 2025 - 21:35
L'ingegner Enrico Perocchio, dipendente della Leitner di Leini e direttore d’esercizio della funivia al momento della tragedia
Dovrebbero arrivare dopodomani, in aula a Verbania, le prime richieste di patteggiamento nel processo per la tragedia del Mottarone, che il 23 maggio 2021 costò la vita a 14 passeggeri precipitati con la cabina della funivia. Secondo quanto trapela dalle trattative in corso, le pene concordate con la Procura dovrebbero aggirarsi attorno ai quattro anni di reclusione per i tre principali imputati.
A distanza di tre mesi dall’ultima udienza, quando i pubblici ministeri avevano deciso di riformulare i capi di imputazione eliminando l’accusa più pesante – attentato alla sicurezza dei trasporti aggravato dal disastro – giovedì il processo vivrà un passaggio decisivo. Dopo un’estate di contatti e limature, i difensori sono pronti a formalizzare le istanze di patteggiamento.
Il primo a manifestare apertamente la volontà di chiudere con un accordo è stato Gabriele Tadini, caposervizio dell’impianto, colui che ammise quasi subito l’utilizzo dei cosiddetti “forchettoni”, i dispositivi che bloccavano i freni di emergenza. Già nel giugno dello scorso anno Tadini aveva tentato la via del patteggiamento con una proposta di 4 anni e 5 mesi, respinta dai magistrati. Ora, con due capi d’accusa in meno, la stessa formula torna sul tavolo. «L’estate è servita per limare una serie di questioni, speriamo di poter concludere l’accordo», ha spiegato all’ANSA l’avvocato Marcello Perillo, che assiste il caposervizio.
Nella scia di Tadini si collocano altri due imputati. Luigi Nerini, titolare della società Ferrovie del Mottarone, sta lavorando con il suo legale Pasquale Pantano a un’intesa simile. «Si lavora seriamente per trovare un accordo prima di giovedì», ha confermato l’avvocato. Anche Enrico Perocchio, dipendente della Leitner con sede a Leini e direttore d’esercizio della funivia al momento della tragedia, sembra intenzionato a chiedere il patteggiamento. Per loro la pena si aggirerebbe attorno ai quattro anni o poco meno.
La Leitner Spa è un'azienda altoatesina con sede a Leini, in via Agudio 8, produce impianti a fune dal 1888 ed è oggi un'azienda specializzata in tecnologie funiviarie a livello mondiale.
Diverso il quadro per i due manager della Leitner spa. Martin Leitner, vicepresidente del consiglio di gestione, e Peter Rabanser, dirigente del customer service, non intendono patteggiare: per entrambi si prospetta il dibattimento, con i legali decisi a chiedere il proscioglimento.
Dietro le schermaglie processuali resta il ricordo della tragedia. Era una domenica di sole, il 23 maggio 2021, quando la cabina numero 3 della funivia Stresa-Mottarone si staccò dalla fune traente a causa della rottura del cavo portante. La caduta da oltre venti metri fu aggravata dalla presenza dei forchettoni, gli strumenti che impedivano l’attivazione automatica del freno di emergenza e che erano stati inseriti per evitare blocchi continui del sistema. La cabina precipitò senza possibilità di arrestarsi, finendo la sua corsa contro il bosco e portando via 14 vite. Solo un bambino di cinque anni, Eitan Biran, sopravvisse alla strage, diventando il simbolo di un dramma che commosse l’Italia intera.
Il piccolo Eitan con i suoi genitori, morti nello schianto
Le indagini della Procura di Verbania si concentrarono subito sulla catena di responsabilità. Nei mesi successivi, oltre alla conferma dell’utilizzo sistematico dei forchettoni, emerse un quadro inquietante di carenze gestionali e di controlli superficiali, con manutenzioni rimandate e un impianto che funzionava in condizioni di rischio. La contestazione iniziale di attentato alla sicurezza dei trasporti aggravato dal disastro, unita a quella di omessa adozione di cautele contro infortuni, rese lo scenario giudiziario pesantissimo. Ma col tempo, alcune di quelle accuse sono cadute, restringendo il campo ai profili di colpa specifica e ridisegnando la mappa delle responsabilità.
Ora, con la prospettiva di pene intorno ai quattro anni per i tre imputati principali, il processo si avvia a un bivio: da un lato la chiusura rapida per Tadini, Nerini e Perocchio; dall’altro la linea dura dei manager Leitner, decisi a dimostrare in aula l’estraneità ai fatti. In mezzo, il dolore dei familiari delle vittime, che da più di quattro anni chiedono giustizia e verità per una tragedia che, secondo gli inquirenti, non fu affatto una fatalità, ma il frutto di scelte consapevoli e leggerezze imperdonabili.
Il prossimo passaggio sarà giovedì: in quell’aula di tribunale, tra attese e trattative, si deciderà il destino giudiziario di chi era chiamato a garantire la sicurezza di un impianto che si trasformò in una trappola mortale.
Era il 23 maggio 2021, una domenica di sole, quando la cabina numero 3 della funivia Stresa–Mottarone precipitò a pochi metri dall’arrivo della stazione di monte. Erano circa le 12.30: la rottura improvvisa della fune traente, che trascinava la cabina lungo il percorso, fece piombare il mezzo nel vuoto per oltre venti metri. L’impianto era privo di freni d’emergenza perché, come accertarono subito gli investigatori, erano stati inseriti i cosiddetti “forchettoni”, dispositivi che bloccavano il sistema automatico di arresto per evitare continui blocchi dovuti a guasti precedenti.
Il bilancio fu devastante: 14 persone persero la vita. Famiglie intere vennero spazzate via in pochi istanti. Tra le vittime, la famiglia israeliana Biran, residente a Pavia: morirono i genitori Amit e Tal, con il piccolo Tom di due anni e i nonni arrivati da Israele. Persero la vita anche cinque componenti della famiglia Malnati, originari della Lombardia, e la giovane coppia formata da Serena Cosentino, ricercatrice calabrese, e dal fidanzato iraniano Mohammadreza Shahaisavandi. Tra i morti anche Elisabetta Persanini e il marito Michelangelo Scarpetta con il figlioletto, oltre ad altre vittime italiane che quel giorno avevano scelto la gita sul lago Maggiore.
L’unico sopravvissuto fu Eitan Biran, cinque anni, estratto vivo dalle lamiere dai soccorritori del 118. Gravemente ferito, trascorse settimane in ospedale e divenne il simbolo di una tragedia che sconvolse l’Italia intera. La sua vicenda personale si intrecciò poi con una lunga battaglia legale sulla custodia, tra i familiari in Italia e i parenti rimasti in Israele.
Le indagini chiarirono che non si era trattato di una fatalità. Oltre al cedimento del cavo, il fatto che i freni fossero stati bloccati manualmente trasformò l’incidente in una strage annunciata, con responsabilità precise affidate alla gestione dell’impianto e ai controlli di sicurezza mancati.
Oggi, a più di quattro anni di distanza, il processo cerca di fare luce fino in fondo su quelle responsabilità, mentre il ricordo delle 14 vite spezzate resta indelebile nelle cronache e nelle coscienze.
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