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Ospedali convertiti alla guerra, arriva la circolare del Ministero: entro il 2026 previsti 15mila soldati feriti

Una circolare ministeriale ordina la predisposizione di reparti e personale specializzato: per Vautrin si tratta di precauzioni, ma cresce l’allarme sull’orizzonte bellico

Ospedali convertiti alla guerra

Ospedali convertiti alla guerra: entro il 2026 previsti 15mila soldati feriti e reparti civili trasformati in campi di battaglia sanitari

In Francia la parola guerra non è più confinata ai dibattiti geopolitici o agli scenari militari disegnati nei vertici Nato. È entrata di forza anche negli ospedali, nelle direzioni sanitarie e nelle agenzie regionali che si preparano a una mobilitazione senza precedenti. Una circolare del Ministero della Salute, inviata lo scorso 18 luglio e resa nota dal settimanale Le Canard Enchaîné, stabilisce che entro marzo 2026 gli ospedali civili dovranno essere pronti ad accogliere fino a 15mila soldati feriti in caso di conflitto armato in Europa.

Il documento ministeriale ordina di predisporre centri di prima accoglienza per grandi numeri di militari, con la possibilità di smistarli in strutture più idonee o, se stranieri, di avviare procedure di rimpatrio sanitario. Non si tratta soltanto di predisporre posti letto aggiuntivi: la circolare impone un adeguamento complessivo, che comprende l’ammodernamento delle attrezzature e la formazione specifica del personale sanitario su ferite da combattimento, traumi complessi e politraumi da esplosione. Patologie che differiscono radicalmente da quelle trattate in ambito civile, e che richiedono competenze chirurgiche e rianimatorie altamente specializzate.

Secondo le stime ministeriali, il sistema dovrà essere in grado di gestire oltre 100 pazienti al giorno per due mesi consecutivi, con picchi di 250 feriti al giorno per tre giorni di fila. Un ritmo che simulerebbe l’afflusso massiccio di soldati in caso di offensiva militare su larga scala. In totale, il fabbisogno calcolato varia tra i 10mila e i 15mila ricoveri nell’arco di 10–180 giorni.

La scelta di coinvolgere direttamente gli ospedali civili segna un passaggio simbolico e pratico rilevante. Tradizionalmente, i feriti di guerra vengono assistiti da strutture militari. Ma la Francia, in coordinamento con Ue e Nato, ha riconosciuto che un conflitto in Europa potrebbe travolgere la capacità logistica delle sole forze armate. Per questo si punta a integrare pienamente la rete civile, con grandi poli come la Pitié-Salpêtrière di Parigi pronti a diventare hub di riferimento.

Si tratterebbe di un cambio di paradigma: non più soltanto emergenze sanitarie interne come il Covid-19, ma la prospettiva di gestire un flusso di feriti provenienti anche da altri Paesi europei. Il piano prevede infatti che i militari stranieri curati in Francia possano essere stabilizzati e successivamente rimpatriati. Una logistica complessa, che implica corridoi sanitari transnazionali, trasporti in sicurezza e coordinamento diplomatico.

La notizia della circolare ha immediatamente alimentato timori e speculazioni su una possibile escalation militare in Europa entro il 2026. Nonostante l’assenza di scenari ufficiali che indichino una guerra imminente, il tempismo del documento – e la chiarezza delle cifre – hanno diffuso la sensazione che il governo francese stia anticipando scenari bellici concreti.

La ministra della Salute Catherine Vautrin ha tentato di raffreddare il dibattito, definendo le disposizioni come “misure precauzionali di routine”. In un’intervista a BFMTV ha ricordato che durante la pandemia di Covid-19 «non c’erano parole abbastanza dure per criticare l’impreparazione del Paese», e ha sottolineato che «anticipare le crisi è responsabilità delle amministrazioni centrali». In altre parole, la circolare non sarebbe la prova di un conflitto inevitabile, ma una scelta di prudenza strategica, pensata per rafforzare gli stock sanitari e la resilienza del sistema.

Resta il fatto che le disposizioni si inseriscono in un contesto internazionale di crescente tensione. La guerra in Ucraina, le dichiarazioni di Trump sulla Nato e l’ipotesi di un coinvolgimento più diretto degli Stati Uniti hanno già modificato il quadro di riferimento. Che il ministero francese indichi nero su bianco marzo 2026 come data entro la quale completare la mobilitazione sanitaria, appare a molti un segnale inequivocabile.

Si tratta di un messaggio duplice: all’interno, volto a garantire che il Paese non sia colto impreparato da crisi improvvise; all’esterno, indirizzato agli alleati Nato ed europei, per mostrare che la Francia è pronta a fare la sua parte nel sostenere operazioni militari sul continente. La previsione di accogliere anche soldati stranieri rimarca la volontà di assumere un ruolo centrale nella gestione sanitaria di un eventuale conflitto.

La rivelazione del piano ha suscitato discussioni accese non solo nei media, ma anche tra sindacati della sanità e opposizioni politiche. Alcuni rappresentanti del personale medico hanno espresso preoccupazione per la sostenibilità di una mobilitazione del genere, considerando la cronica carenza di infermieri e anestesisti che già oggi affligge molti ospedali francesi. «Come possiamo prepararci a ricevere 250 feriti al giorno se non riusciamo a coprire i turni ordinari?» è stata la domanda rilanciata da alcune associazioni di categoria.

L’opposizione di sinistra ha accusato il governo di «seminare panico» e di «utilizzare la retorica della guerra per giustificare investimenti insufficienti nella sanità civile». Dall’altra parte, i partiti di destra hanno invece sostenuto la necessità di una pianificazione militare rigorosa, accusando la sinistra di irresponsabilità e di scarsa consapevolezza dei rischi geopolitici.

Il dato temporale fissato al marzo 2026 resta la variabile più inquietante. Perché proprio quella data? Alcuni analisti ipotizzano che la Francia, sulla base di scenari Nato, consideri il biennio 2025-2026 come particolarmente critico per l’equilibrio europeo. L’ipotesi di una escalation in Ucraina, di un allargamento del conflitto o di nuove crisi nei Balcani e nel Mediterraneo potrebbe spiegare la decisione di accelerare.

Altri sottolineano come l’indicazione di una scadenza serva a rendere il piano operativo e vincolante, evitando che resti sulla carta. In ogni caso, la scelta di rendere pubblica la circolare attraverso una fuga di notizie amplifica il dibattito e costringe il governo a giustificarsi.

Il richiamo al Covid fatto dalla ministra Vautrin non è casuale. La pandemia ha mostrato quanto la preparazione preventiva faccia la differenza nella gestione delle emergenze. Trasportare quella logica nel contesto bellico è il passo ulteriore che il governo francese ha deciso di compiere, forse anche per rafforzare la percezione di uno Stato pronto a proteggere i propri cittadini e alleati.

Eppure, la prospettiva di ospedali civili mobilitati per assistere feriti di guerra riporta alla mente immagini che l’Europa pensava di aver archiviato con il Novecento. Camere operatorie trasformate in pronto soccorso militari, reparti pediatrici e ortopedici riadattati per feriti di conflitto: scenari che oggi vengono messi nero su bianco in un documento ufficiale.

La Francia si prepara, almeno sul piano sanitario, a uno scenario che nessuno auspica ma che le tensioni globali rendono plausibile. Tra precauzione e allarme, tra volontà politica e timori sociali, la circolare del 18 luglio segna una linea di confine: gli ospedali francesi non sono più pensati soltanto per la cura dei cittadini, ma come possibili retrovie di un campo di battaglia europeo.

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