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02 Settembre 2025 - 10:54
Quando si osserva l’Europa nell’estate del 2025, ci si accorge subito di quanto la guerra in Ucraina non sia soltanto un fronte armato ma anche un banco di prova per l’unità politica e per la sicurezza energetica del continente. A Bruxelles si continua a ribadire l’obiettivo di eliminare entro il 2027 la dipendenza dal ricatto energetico di Mosca, eppure tre Paesi dell’Europa centro-orientale raccontano una storia più complessa, fatta di alleanze divergenti, opinioni pubbliche polarizzate e strategie che talvolta sembrano contraddire la linea ufficiale dell’Unione. Ungheria, Slovacchia e Bulgaria costituiscono oggi il cuore di questa narrazione.
In Ungheria, Viktor Orbán sembrerebbe mostrarsi come l’alleato più fedele di Vladimir Putin all’interno dell’UE, ma la dipendenza energetica del Paese è lampante: il 65% del gas naturale arriva dalla Russia, così come tra il 60 e l’80 % del petrolio e la totalità del combustibile nucleare per la centrale di Paks, secondo i dati Reuters e OilPrice.com aggiornati all’estate 2025. Gli attacchi ucraini alle stazioni di pompaggio lungo l’oleodotto Družba del 21 agosto hanno interrotto temporaneamente i flussi verso Bratislava e Budapest, costringendo i ministri degli Esteri dei due Paesi a scrivere una lettera alla Commissione europea in cui affermavano che “senza questo oleodotto, l’approvvigionamento sicuro dei nostri paesi non è semplicemente possibile”. Inoltre, pur condannando ufficialmente la guerra, l’Ungheria si è opposta a sanzioni energiche dure, ha bloccato l’invio di aiuti militari a Kiev e si è più volte frapposta alle decisioni comunitarie a sostegno dell’Ucraina.
La posizione ungherese trova conferma soprattutto nell’ambito del nucleare: il 100% del combustibile usato nella centrale di Paks è ancora fornito da Mosca e, nonostante il Parlamento abbia autorizzato dal 2024 l’uso di fonti alternative, firmando con la società francese Framatome un contratto di fornitura che entrerà in vigore dal 2027, nel 2025 Budapest ha addirittura rafforzato la sua dipendenza da Mosca. Il progetto Paks-2, realizzato insieme a Rosatom - la corporazione statale russa per l’energia nucleare - prevede infatti due nuovi reattori VVER-1200 che raddoppieranno la capacità entro la fine del decennio, consolidando ancora di più l’abbraccio energetico con il Cremlino. Tutto ciò potrebbe essere rappresentato come il segno di una precisa scelta di campo, che nessuna pressione europea sembra in grado di invertire.
Lo scenario slovacco è diverso ma altrettanto complesso: la dipendenza dal petrolio e dal gas russo resta alta. Ma se sul fronte energetico emerge la vulnerabilità strutturale del Paese, sul piano politico, il primo ministro Robert Fico ha prodotto una polarizzazione che ha riportato Bratislava indietro di vent’anni. Dopo le elezioni del Parlamento europeo del giugno 2024, il premier slovacco ha intensificato la sua pressione su Bruxelles soprattutto sul terreno energetico. A metà luglio 2025 ha minacciato di porre il veto al nuovo pacchetto di sanzioni contro Mosca, legando il sostegno di Bratislava a garanzie sull’approvvigionamento energetico. Pochi giorni dopo, però, ha invertito la rotta: un dietrofront motivato dal rischio di isolamento diplomatico e dall’impegno dell’UE a tenere conto delle esigenze slovacche. Il segnale è chiaro: i leader dell’Europa centro-orientale usano la retorica filorussa come arma di pressione, ma restando entro i confini di un fragile equilibrio con Bruxelles.
In tale contesto, il Varieties of Democracy Institute (V-Dem) di Göteborg colloca oggi la Slovacchia tra i Paesi a rischio di automatizzazione, sulla base di un database che dal 1789 raccoglie dati su oltre 200 Stati grazie al lavoro di migliaia di esperti. Una valutazione che non resta confinata alle statistiche accademiche, ma trova conferma immediata nella vita quotidiana del Paese, con piazze gremite e un malcontento diffuso che ha trasformato l’indice di rischio in una realtà tangibile.
Dopo la visita a sorpresa di Fico a Mosca nel dicembre 2024, le piazze si sono riempite: sessantamila persone a gennaio a Bratislava con lo slogan “Slovacchia è Europa”, oltre centodiecimila a febbraio in quarantuno città slovacche e tredici capitali europee, con cortei ripetuti anche a marzo, segno di un malcontento destinato a durare. Questa mobilitazione trova riscontro nei dati raccolti da CEIAS e Euractiv, che restituiscono l’immagine di una società spaccata: il 45% degli slovacchi guarda con favore agli Stati Uniti, il 41% alla NATO e appena il 37% all’Unione Europea, mentre il 29% mantiene un’opinione positiva della Russia e il 17% auspica apertamente una sua vittoria in Ucraina. Tra gli elettori del partito di governo Smer, invece, prevale un netto sentimento antieuropeo, con il 63% che dichiara opinioni negative sull’UE. Percentuali che non vanno lette come quote aritmetiche da sommare al 100%, poiché nei sondaggi gli intervistati possono esprimere giudizi positivi su più attori contemporaneamente e una parte consistente della popolazione resta nella categoria dei “neutrali” o “senza opinione”, stimata fino al 20-25%.
Il grafico mostra con chiarezza questa ambivalenza:
Sul nucleare, al contrario dell’Ungheria e della Bulgaria, non si registrano svolte significative. La Slovacchia continua a utilizzare reattori VVER di fabbricazione russa, senza aperture a fonti alternative.
La Bulgaria rappresenta il terzo tassello di questo mosaico. Qui la dipendenza dal gas russo è diminuita dopo la scadenza del contratto con Gazprom nel 2022, sostituita da importazioni via Turchia e LNG (Gas Naturale Liquefatto) da rotte alternative. La partita decisiva, però, si gioca sul fronte nucleare. Nel giugno 2024 il reattore 5 della centrale di Kozloduj ha utilizzato per la prima volta combustibile prodotto dalla statunitense Westinghouse Electric Company, interrompendo i rifornimenti della russa Rosatom. Nel 2025 la transizione si è rafforzata con l’ingresso di Framatome per l’unità 6 e un piano di completamento previsto entro il 2027. Westinghouse, inoltre, ha siglato accordi con partner bulgari per il progetto AP1000 – “punta di diamante” della tecnologia nucleare statunitense – che segna un cambio di passo epocale e consolida un legame industriale di lungo periodo con l’Occidente.
Parallelamente, Sofia si candida a diventare anche un polo strategico per la difesa europea. Secondo l’agenzia BTA, il governo bulgaro e la tedesca Rheinmetall hanno avviato i preparativi per costruire due stabilimenti sul territorio nazionale: uno dedicato alla produzione di proiettili d’artiglieria da 155 mm, standard NATO, e l’altro destinato a diventare la più grande fabbrica di polvere da sparo d’Europa. L’accordo, annunciato dopo i colloqui di Düsseldorf tra Boyko Borissov - leader del partito conservatore di centro-destra GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria) - e l’amministratore delegato di Rheinmetall Armin Papperger non è solo un investimento industriale ma un chiaro segnale politico. La scelta della Bulgaria risponde a motivazioni logistiche - la vicinanza al Mar Nero e al teatro ucraino - e strategiche, consolidando l’ancoraggio euro-atlantico di un Paese che per anni ha oscillato tra influenze russe e occidentali.
Sul fronte del gas, invece, l’attenzione si concentra sulla struttura di stoccaggio di Chiren, la più importante del Paese, al centro di colloqui con investitori statunitensi. Secondo Reuters, due finanziatori americani, Stephen P. Lynch e Fei Wang, con il supporto di Brad Parscale (ex manager della campagna di Donald Trump), hanno avviato trattative con Sofia per partecipare al piano di raddoppio della capacità, così da trasformare Chiren in un hub energetico regionale. L’operazione resta in fase esplorativa, ma riflette l’interesse di Washington a ridurre il peso della Russia sulle infrastrutture strategiche dell’Europa sudorientale.
Va però sottolineato che il percorso di diversificazione non cancella del tutto i legami con Mosca. La deroga concessa all’import di acciaio russo per la centrale di Kozloduj, motivata dalla persistenza di apparecchiature di fabbricazione russa, ne rappresenta un esempio emblematico. Secondo le valutazioni del think tank GMK Center, questa scelta rischia di incrinare la coesione europea sul piano sanzionatorio, pur senza modificare l’orientamento strategico complessivo del Paese, sempre più proiettato verso un progressivo allineamento filoccidentale.
L’opinione pubblica bulgara conferma questa tendenza: secondo i dati raccolti dai media Novinite e Myara ad agosto 2025, il 64,9% dei cittadini esprime un giudizio positivo sull’Unione Europea, mentre il 31% continua a guardare con favore a Mosca. Le percentuali relative alla NATO e agli Stati Uniti restano più basse, segno di un rapporto meno lineare, ma il distacco dall’immagine della Russia appare netto. Il grafico che accompagna questi dati restituisce con immediatezza la percezione comparata dei diversi attori internazionali agli occhi della popolazione bulgara, evidenziando come l’orientamento del Paese sia ormai saldamente proiettato verso l’Occidente.
Sul piano politico, non va trascurato che il nuovo governo di coalizione insediatosi a Sofia nel gennaio 2025 – guidato da Rosen Želâzkov e sostenuto anche dal Partito Socialista Bulgaro (BSP), tradizionalmente incline a posizioni ambigue verso Mosca – ha complicato ulteriormente l’equilibrio istituzionale del Paese. Pur mantenendo una linea formale di integrazione euro-atlantica, la presenza del BSP continua a rappresentare un fattore di incertezza nei rapporti con Bruxelles e Washington.
Dall’analisi comparata dei tre Paesi emerge l’attuale fisionomia politica dell’Europa centro-orientale: un mosaico in cui coesistono fedeltà a Mosca, ambivalenze e aperture decise verso l’Occidente. In Ungheria sette cittadini su dieci guardano con favore alla Russia, mentre appena il 20% continua a riporre fiducia nell’UE, nella NATO o negli Stati Uniti. La Slovacchia è invece la terra di mezzo, divisa, attraversata da proteste e da una polarizzazione che oppone il 45% favorevole agli Stati Uniti al 29 che continua a sostenere la Russia. Ben diversa la traiettoria della Bulgaria, dove la bilancia pende nettamente verso Ovest: quasi due terzi dei cittadini (65%) dichiarano fiducia in UE, NATO e Stati Uniti, mentre solo il 31% continua a mantenere un orientamento favorevole a Mosca. Sofia, insomma, appare oggi il volto più convintamente occidentale della regione.
La questione energetica e, in particolare, il settore nucleare rappresentano oggi la vera chiave di lettura. Ungheria e Bulgaria hanno fatto scelte opposte: Budapest ha rafforzato i legami con Rosatom, Sofia ha intrapreso una decisa marcia verso Westinghouse e Framatome. La Slovacchia resta immobile, ancorata a reattori VVER russi senza segnali di cambiamento. In queste decisioni non c’è soltanto una questione tecnica, ma l’indicazione chiara di un orientamento politico, economico e strategico.
Se il futuro dell’Europa dipenderà dalla capacità di preservare la propria coesione, la partita che si gioca tra Bratislava, Sofia e Budapest diventa il termometro di una più ampia battaglia di influenza. È una sfida che non riguarda solo le rotte del gas e del petrolio, ma il cuore stesso della sicurezza energetica europea e che ci dirà fino a che punto il continente sarà in grado di liberarsi dall’abbraccio di Mosca.
BOX
L’arco di instabilità: Serbia, Georgia e gli altri
Accanto ai membri dell’Unione Europea più ambivalenti verso Mosca, c’è un secondo fronte rappresentato da Paesi che non fanno parte né dell’UE né della NATO, e che rimangono sospesi tra l’influenza russa e le spinte di integrazione occidentale. È la fascia che viene definita “l’arco di instabilità europea”, un corridoio che va dai Balcani al Caucaso.
La Serbia resta il caso più emblematico. Stando ai sondaggi ripresi da Balkan Insight, ancora nel 2025 oltre il 50% dei serbi considera la Russia un Paese amico, mentre meno del 10% riserva lo stesso giudizio agli Stati Uniti. Belgrado continua a dipendere in larga parte dal gas russo e mantiene stretti rapporti militari e culturali con Mosca, pur dichiarando di non voler rinunciare al processo di avvicinamento all’UE. Aleksandar Vučić, il presidente serbo, ha spesso oscillato tra aperture verso Bruxelles e strette di mano con Vladimir Putin, incarnando la doppiezza di questa posizione.
La Georgia vive un contesto diverso, ma non meno fragile. Segnali politici concreti del raffreddamento dell’orientamento pro-occidentale sono arrivati nell’estate 2025. A giugno, il premier Mikheil Q'avelashvili ha deciso di chiudere il centro informativo su UE e NATO a Tbilisi, un simbolo della crisi nei rapporti con Bruxelles. In sintesi, la Georgia del 2025 è un Paese sospeso: da un lato, la sua società civile rimane largamente pro-europea; dall’altro, il governo sta accelerando un processo di retrocessione democratica, consolidando legami pragmatici con la Russia e rendendo incerto il suo percorso di integrazione euro-atlantica.
L’Armenia, dopo la disfatta militare in Nagorno-Karabakh e l’indebolimento della storica alleanza con Mosca, ha avviato un riavvicinamento all’Occidente, ma l’opposizione continua a invocare l’impeachment del premier Nikol Pashinyan accusandolo di “tradimento” verso la Russia. Il Cremlino mantiene leve di influenza attraverso la base militare di Gyumri e la dipendenza energetica di Erevan.
La Moldova rappresenta un altro terreno conteso: il governo di Maia Sandu, filoeuropeo, punta con decisione all’adesione all’UE, ma deve fare i conti con la persistente presenza russa in Transnistria e con una parte della popolazione ancora incline a vedere in Mosca un interlocutore privilegiato.
Infine, la Bosnia-Erzegovina rimane divisa lungo le linee etniche e politiche: mentre Sarajevo sostiene il percorso euro-atlantico, la Repubblica Serba di Bosnia guidata da Milorad Dodik mantiene rapporti diretti con Mosca, che si traducono in aperture diplomatiche e in un rifiuto delle sanzioni occidentali.
In questo quadro, la Slovenia fa eccezione: già dal 2004 saldamente ancorata a UE e NATO, osserva da vicino le fragilità dei vicini, consapevole dei rischi di destabilizzazione regionale.
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