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Cronaca

Perquisizione nel carcere di Torino: le inquietanti scoperte degli agenti

L’operazione al Lorusso Cutugno riaccende le denunce sulle criticità del sistema penitenziario

Perquisizione nel carcere

Perquisizione nel carcere di Torino: le inquietanti scoperte degli agenti

Una perquisizione all’interno della Casa circondariale “Lorusso Cutugno” di Torino ha portato alla luce ancora una volta la fragilità del sistema penitenziario italiano. Negli ultimi giorni, gli agenti della Polizia Penitenziaria hanno infatti rinvenuto all’interno del Padiglione B un vero e proprio campionario di oggetti proibiti: droga, un telefono cellulare con relativo caricabatteria e persino banconote, che – come noto – all’interno degli istituti di pena non possono circolare.

A darne notizia è stato Vicente Santilli, segretario del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), che ha sottolineato l’importanza dell’operazione condotta dai cosiddetti Baschi Azzurri di Torino. Santilli ha parlato di un “sequestro rilevante”, frutto dell’impegno di un personale che, nonostante il piano ferie e la cronica carenza di organico, continua a garantire ordine e sicurezza. Parole che mettono in evidenza, ancora una volta, le difficoltà di un corpo spesso lasciato in condizioni operative complesse, ma che non rinuncia a mantenere il controllo nelle carceri.

A rincarare la dose è intervenuto Donato Capece, segretario generale del Sappe, che ha spostato il discorso dal semplice episodio di contrabbando al tema più ampio della gestione dei detenuti tossicodipendenti. Capece ha evidenziato come il carcere si trovi oggi a gestire un numero crescente di persone con problemi di dipendenza da sostanze, una presenza che contribuisce a rendere ancora più difficile la vita negli istituti di pena già sovraffollati.

Secondo il sindacalista, la sola somministrazione di metadone non risolve il problema alla radice. Capece ha ricordato come il mantenimento di un detenuto in carcere abbia un costo medio di 200 euro al giorno, mentre in una comunità terapeutica la spesa oscillerebbe tra i 50 e gli 80 euro. Da qui il suo ragionamento: portare i tossicodipendenti fuori dalle celle e inserirli in percorsi terapeutici non solo consentirebbe un risparmio per lo Stato, ma offrirebbe anche la possibilità concreta di recupero.

Capece ha fatto un paragone con l’esperienza del carcere di Rimini, dove già oltre vent’anni fa era stata istituita una sezione speciale con soli 16 posti, dedicata ai detenuti che accettavano di aderire a un programma specifico con l’amministrazione. Questi si impegnavano a studiare, lavorare, sospendere l’assunzione di sostanze sostitutive come il metadone e, dopo un periodo di sei mesi o un anno, venivano trasferiti in comunità. Secondo Capece, un modello del genere ha dato risultati importanti, con percorsi di recupero reali e concreti.

Il sindacalista sottolinea come replicare simili esperienze su scala nazionale potrebbe non solo ridurre il sovraffollamento, ma anche restituire dignità e prospettiva a persone altrimenti destinate a recidiva e marginalità. "Quando ci riusciamo – ha osservato Capece – non abbiamo salvato solo i ragazzi, ma anche le loro famiglie, perché la tossicodipendenza non è un problema che riguarda solo il singolo, ma l’intero nucleo familiare".

L’episodio del Lorusso Cutugno, con la scoperta di droga e telefoni cellulari, riporta così in primo piano una questione mai risolta: come bilanciare sicurezza e diritti all’interno di istituti penitenziari che sempre più spesso diventano microcosmi ingestibili. Capece ricorda che la Polizia Penitenziaria, troppo spesso in prima linea senza mezzi adeguati, rappresenta un pilastro fondamentale del sistema sicurezza nazionale. Una funzione che va ben oltre le mura delle carceri, perché la gestione della pena non è solo controllo e contenimento, ma deve essere anche un passaggio verso il reinserimento sociale.

"Salvi i casi più gravi – ha affermato Capece – la doverosa esecuzione della pena deve costituire il presupposto per il ritorno alla vita civile del detenuto". Parole che, in un contesto in cui il dibattito politico si concentra spesso sulle emergenze contingenti, pongono invece l’accento su un principio costituzionale troppo spesso dimenticato: la pena come strumento rieducativo.

Il ritrovamento di droga e denaro dentro le celle torinesi, dunque, non è soltanto la cronaca di una perquisizione riuscita, ma l’ennesima prova di quanto la permeabilità delle carceri ai traffici illeciti sia un problema costante. Telefono e banconote, in particolare, rappresentano strumenti che possono alimentare dinamiche pericolose tra i detenuti, favorendo gerarchie interne e pratiche illegali che la Polizia Penitenziaria è chiamata a contrastare quotidianamente.

Eppure, come evidenziano i sindacati, senza un adeguato investimento in risorse umane e strutturali, queste operazioni rischiano di restare semplici interventi tampone. Il rischio è che il carcere resti un luogo in cui il degrado e la violenza continuano a trovare spazio, mentre la funzione rieducativa rimane lettera morta.

Il sequestro al “Lorusso Cutugno” diventa così un caso emblematico: da un lato dimostra l’efficacia e la dedizione degli agenti, dall’altro mette a nudo la fragilità di un sistema che fatica a rispondere con strategie strutturali. Un sistema che, di fronte a problemi complessi come la tossicodipendenza, si rifugia ancora troppo spesso in soluzioni emergenziali, senza affrontare alla radice il nodo del recupero e del reinserimento.

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