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Cronaca
28 Luglio 2025 - 16:14
Strambino, uomo travolto dal treno: nessuno sa chi sia. Nessuno lo ha cercato
A terra, accanto al corpo straziato, un bastone. Pochi oggetti, nessun documento. Nessun nome. Solo silenzio. A distanza di giorni dalla tragedia ferroviaria avvenuta a Strambino, lungo la linea Chivasso-Ivrea, il volto dell’uomo investito e ucciso da un treno alle prime luci dell’alba del 21 luglio è ancora senza identità. Nessuno ha reclamato il corpo. Nessuno ha denunciato una scomparsa compatibile. Nessuno ha riconosciuto la sua sagoma, i suoi abiti, quel bastone che con ogni probabilità gli serviva per camminare. Come se fosse un fantasma caduto dal nulla sui binari di una delle tratte più trafficate del Canavese.
Il macchinista del convoglio diretto a Ivrea aveva tentato una frenata d’emergenza, ma senza riuscire a evitare l’impatto. Il corpo dell’uomo, probabilmente già riverso sui binari al momento dell’arrivo del treno, è stato trovato in condizioni tali da rendere subito complicato ogni tentativo di riconoscimento. L’assenza di documenti ha fatto il resto. E ora la domanda che rimbalza da giorni negli uffici della polizia ferroviaria, negli ambienti della procura e nel cuore della comunità è una sola: chi era quell’uomo?
Per cercare una risposta, la procura di Ivrea – con la coordinazione della procuratrice Gabriella Viglione – ha disposto l’autopsia. A eseguirla è stato il medico legale Mario Alexandru Apostol, che ha però consegnato un referto che non scioglie i dubbi, ma li amplifica. Le lesioni sono compatibili con un impatto violento, ma non è possibile determinare con certezza se la morte sia avvenuta prima o durante l’investimento. In altre parole: l’uomo potrebbe essere caduto sui binari – forse in modo accidentale – o potrebbe essere stato lì per altre ragioni, persino per un gesto volontario. Ma per ora nessuna di queste ipotesi trova conferma.
Inizialmente si era pensato a un suicidio. Un’ipotesi immediata, quasi automatica, davanti a un corpo sui binari. Ma quel bastone accanto a lui – simbolo di fragilità, forse di fatica, forse di età – ha fatto emergere un’altra possibilità: e se fosse semplicemente inciampato? Una camminata solitaria al mattino presto, un passo falso, un malore. E poi l’impossibilità di rialzarsi, la fine.
Nel frattempo, gli investigatori stanno passando al vaglio tutte le segnalazioni di persone scomparse nelle ultime settimane, non solo in Piemonte ma anche nelle regioni confinanti. Un lavoro lungo, paziente, che si scontra con l’assenza di tratti distintivi e la totale mancanza di testimoni. Il corpo dell’uomo è stato rinvenuto in un tratto isolato, senza telecamere, né case nelle immediate vicinanze. Nessuno sembra aver visto, sentito o notato qualcosa di insolito.
Chi era quell’uomo? Da dove veniva? Aveva una famiglia, degli amici, qualcuno che lo stava aspettando a casa? Le domande si rincorrono, e il fatto che nessuno si sia fatto avanti per cercarlo lascia aperta una ferita più profonda. Una morte solitaria, nel silenzio, nel buio dell’alba, senza nemmeno un nome su cui piangere.
Le autorità continuano a indagare. E mentre le indagini si muovono tra perizie mediche, riscontri incrociati e analisi delle celle telefoniche, resta un senso di inquietudine collettiva. In un mondo iperconnesso, può davvero una persona morire senza che nessuno se ne accorga? E ancora: può il destino giocare un simile scherzo a qualcuno, tanto da fargli perdere la vita e l’identità nello stesso istante?
Si aspetta una risposta. O almeno un nome. Per poter piangere, per poter capire. Per poter chiudere una pagina che, altrimenti, rischia di restare aperta per sempre.
Gli invisibili: quando si muore e nessuno se ne accorge
Ci sono morti che lasciano il segno. Morti che scuotono le coscienze, che commuovono, che fanno notizia. E poi ci sono le altre. Quelle che non hanno un nome, né un volto. Le morti degli invisibili. Uomini e donne che spariscono senza che nessuno li cerchi. Che muoiono in silenzio. Da soli. E nessuno se ne accorge.
A Strambino, lungo una linea ferroviaria che centinaia di pendolari percorrono ogni giorno, un uomo è stato investito da un treno. È morto sul colpo. Aveva un bastone con sé, segno forse di una vita faticosa, di un corpo che non rispondeva più con agilità. Non aveva documenti. Non aveva una casa nota. Non aveva nessuno che lo stesse aspettando. Nessuno che, nei giorni successivi, abbia chiamato per dire: “Manca mio padre. Mio fratello. Il mio amico.” Nulla. Silenzio.
E allora la domanda, lancinante, che resta sospesa su questo fatto apparentemente “di cronaca” è solo una: com’è possibile morire e non lasciare alcuna traccia?
Viviamo in una società iperconnessa, dove tutto viene registrato, controllato, documentato. Ma evidentemente non basta. Ci sono vite che scorrono ai margini, che non compaiono nei database, che non fanno rumore. Vite che non si vedono. Perché si decide di non guardarle. Perché non sono comode. Perché fanno paura. Perché ci ricordano che quel destino, domani, potrebbe toccare a noi.
Gli invisibili sono ovunque. Dormono sulle panchine o dentro roulotte abbandonate. Fanno la fila davanti alle mense o si trascinano zitti tra le corsie dei supermercati, con qualche moneta stretta nel pugno. Camminano ai bordi delle strade, tra un bivio e l’altro, magari con un bastone in mano. E a volte muoiono. Senza nome. Senza funerale. Senza pianto.
Non si tratta solo di povertà materiale. Si può essere invisibili anche in giacca e cravatta, anche con uno stipendio, anche con un tetto sopra la testa. L’invisibilità, spesso, è una condanna sociale, un fallimento collettivo, una responsabilità di tutti. Di chi non vede, di chi non ascolta, di chi non ha tempo. Di chi, quando incontra un uomo stanco in stazione con un bastone in mano, tira dritto. Perché “non è affar mio”. Perché “ci sono i servizi sociali”. Perché “qualcuno se ne occuperà”.
No. Nessuno se n’è occupato.
Non c’è solo un cadavere sui binari di Strambino. C’è un’assenza che grida. C’è una città intera – e un Paese intero – che dovrebbe fermarsi un istante a riflettere su questo vuoto. Su questa solitudine. Perché non è normale morire così. E soprattutto: non è giusto. Non dovrebbe accadere mai.
Gli invisibili non ci chiedono elemosina. Ci chiedono di essere guardati. Riconosciuti. Nominati. Solo così potremo, un giorno, essere degni della parola comunità. E restituire umanità anche a chi l’ha persa per strada, camminando da solo verso una fine che nessuno ha visto. Tranne il treno. E il silenzio.
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