Cerca

Cronaca

Torino, uccise il figlio nel sonno: pena ridotta da 15 a 13 anni per seminfermità mentale

Riconosciuta la seminfermità mentale dopo la morte della moglie e le fragilità del figli

Torino, uccise il figlio nel sonno

Torino, uccise il figlio nel sonno: pena ridotta da 15 a 13 anni per seminfermità mentale

Un dramma che continua a scuotere la comunità di Canelli e che ha trovato ieri un nuovo capitolo nella sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Torino. Piero Pesce, l’operaio 63enne che nel novembre 2022 ha ucciso nel sonno il figlio Valerio, è stato condannato a 13 anni di reclusione, due in meno rispetto alla sentenza di primo grado. La decisione della Corte arriva dopo il riconoscimento della seminfermità mentale, aggravata da una spirale di lutti e sofferenze che hanno travolto la famiglia Pesce.

Quel gesto, compiuto con un coltello nella notte mentre Valerio dormiva nella sua stanza, fu il punto finale di un’angoscia mai affrontata, esplosa dopo la morte della moglie e il progressivo precipitare del figlio nel tunnel delle dipendenze. Da allora Piero Pesce è rinchiuso nel carcere di Biella, sotto stretta sorveglianza per rischio suicidario, isolato e profondamente segnato da quanto accaduto.

L’udienza torinese è durata poco, ma le parole pronunciate in aula e il clima che vi si respirava hanno lasciato il segno. Pesce era presente, accompagnato dall’avvocato Carla Montarolo, che ha sottolineato il costante distacco dalla realtà che caratterizza le giornate dell’imputato. Secondo la difesa, l’uomo non ha mai smesso di tormentarsi, definendo il gesto come un abisso in cui è caduto per non essere riuscito a salvare il figlio. “La sua condanna vera non è quella inflitta dalla legge – ha detto l’avvocata – ma quella che si infligge ogni giorno, consapevole di aver tolto la vita a chi più amava

Pesce, nel corso dei due processi, ha ripetuto più volte che non voleva uccidere, ma che si sentiva impotente davanti alla deriva di Valerio, schiacciato da anni di dipendenze, ricoveri e ricadute. La perdita della moglie aveva già minato la stabilità familiare, e lui, rimasto solo, si era trovato senza strumenti per affrontare la crisi del figlio. In quell’equilibrio precario, la notte del delitto è arrivata come una resa definitiva, una scelta folle nata da una disperazione senza via d’uscita.

La riduzione della pena è stata accolta come l’unico spiraglio per iniziare un percorso di cura, più che come una vittoria. In carcere, Pesce viene descritto come un uomo educato, mite e rispettoso, un detenuto esemplare che però vive in uno stato di costante prostrazione, senza contatti con gli altri. 

A Torino non erano presenti la madre e la suocera di Pesce, le due donne che non l’hanno mai abbandonato, pur avendo perso un nipote. Pesce ha chiesto loro di non affrontare il viaggio da Asti per motivi di salute. Il loro affetto, mai venuto meno, rappresenta l’unico legame con ciò che resta della sua famiglia. Nessuno dei due rami familiari si è costituito parte civile. Anche questo ha avuto un peso nella decisione della Corte.

Ora, con una pena più breve ma una sofferenza immutata, Piero Pesce affronterà il resto della sua vita nel tentativo di comprendere e affrontare l’orrore che ha vissuto. Non come un criminale, ma come un padre spezzato, che ha perso tutto, a partire da sé stesso.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori